01/2015. Un pezzo di pane

Cari mamma e papà,

è passato molto tempo dall’ultima volta che ho avuto il coraggio di chiamarvi per nome. Anche adesso provo una fitta al cuore nel far riemergere i ricordi di quando voi eravate ancora qui, accanto a me. Sapete, quando mi chiamarono al telefono per dirmi che ve ne eravate andati per sempre, non ci volevo credere. Continuavo a ripetere “Dove sono andati? Perché non torneranno mai più?!”. Passavo le giornate chiusa in camera, e non andavo neanche a scuola.

Poi capii che era inutile tormentarsi: ormai ero sola, e dovevo imparare ad arrangiarmi. C’era solo una cosa che odiavo di me stessa e che rimpiangevo, ed era il non avervi resi fieri di me. Non avevo mai preso il voto più alto in una verifica, non avevo mai vinto nessuna gara sportiva e non ero neanche una gran bellezza.

Per questo desiderai ardentemente di cambiare, partendo dal mio aspetto esteriore. Volevo tanto essere bella ed apprezzata come lo eri tu, mamma.

E allora, per dimagrire, smisi di mangiare. Inizialmente ero felice del mio cambiamento, perché tutti a scuola venivano da me e si complimentavano per il mio fisico. Durante l’estate di quell’anno mi invitarono innumerevoli volte al lago.

Alla fine di agosto, però, nonna mi disse che ero dimagrita troppo. Ovviamente non la ascoltai nemmeno, anzi, le urlai contro di farsi gli affari suoi e di non intromettersi troppo nella mia vita.

Ora so che aveva ragione. Non appena iniziò la scuola, i professori mi chiamarono in disparte e mi consigliarono di andare a farmi visitare perché stavo diventando anoressica. Non avevo mai pensato seriamente di potermi ammalare di anoressia, ma quando quel giorno tornai a casa e mi guardai allo specchio mi vidi con occhi diversi. Ero troppo magra, ma non avevo più la forza per mangiare. Il cibo mi nauseava.

I medici diagnosticarono il mio caso come “grave” e mi mandarono in ospedale. Nonna era arrabbiatissima con me e non mi veniva a trovare tanto spesso; questo aggravava ulteriormente le cose perché, in quel momento, la solitudine era la mia nemica più grande, dopo il cibo.

Mi sentivo incapace di fare qualunque cosa, non avevo pensieri. Mi sentivo ingabbiata nella mia stessa esistenza, quella che stavo per distruggere.  Ma non me ne importava un granché.

Il cibo mi nauseava, lo vomitavo continuamente. Ero imprigionata in un girone infernale senza fine.

Poi un giorno arrivò la donna che cambiò la mia vita. Si chiama Samantha. E’ originaria dell’Africa, e adesso mi sta guardando, mentre scrivo questa lettera. E’ un medico che lavorava nell’ospedale dov’ero ricoverata e a lei venne affidato il mio caso perché era sicura di poterlo risolvere.

Samantha fu costretta ad assistere quotidianamente alla mia furia autodistruttiva, mi vide sbattere i vassoi colmi di cibo per terra e nel gabinetto, mi vide piangere e gridare, mi vide accasciata sul pavimento mentre il mio stomaco si contorceva per la nausea. Lei vide una parte di me che neanche io conoscevo.

Un giorno, quando ormai i medici erano convinti che per me non c’era più speranza,  Samantha preparò  una valigia e mi annunciò che mi avrebbe portata in Africa. Voleva salvarmi una volta per tutte. Sì, disse proprio così: “Ti salverò”, perché dalle malattie come l’anoressia non si guarisce, ci si salva e basta.

Durante il viaggio i miei pensieri corsero continuamente a voi, cari mamma e papà, e piansi disperatamente perché sapevo, in fondo al mio cuore, che per me il confine sottile fra la vita e la morte stava per azzerarsi.

Accanto a me avevo la mano ferma e gentile di Samantha che ad ogni secondo mi rassicurava dicendomi che mancava poco alla mia salvezza.

Una volta scese in Africa, abbiamo fatto un lungo viaggio prima di arrivare in un villaggio sperduto in mezzo al deserto, o quasi. Era il villaggio in cui  Samantha era nata.

Il mio sguardo correva senza sosta alla miseria che avevo intorno, alle case di fango secco e ai loro tetti piatti. Da una di queste case, a un certo punto, sbucò un bambino: avrà avuto sì e no sei anni, ed era molto più magro di me . Non appena ci vide, si mise a correre e a chiamare gli altri abitanti del villaggio.  “E’ tornata Samantha”, gridava di gioia.

Voi non potete neanche immaginare la felicità di quelle persone quando Samantha corse loro incontro: la sollevarono, la toccarono, la baciarono, quasi come se dovesse sparire da un momento all’altro. Quella scena mi fece piangere di nuovo, ma stavolta non ero triste: ero commossa.

Dopo qualche minuto, Samantha mi venne incontro. Mi portò un panino. Inizialmente, devo ammetterlo, lo rifiutai bruscamente, allontanandole la mano, nauseata, quasi furibonda per quel gesto. Ma poi il mio sguardo cadde su quella povera gente e soprattutto sul bambino di sei anni che ci guardava con gli occhi sgranati. Per la prima volta capii come mai Samantha aveva voluto mostrarmi la sua terra e la sua grande famiglia; capii perché mi aveva messo in mano quel pezzo di pane. Un piccolo pezzo di pane stava per cambiare la mia vita.

Allungai il braccio e l’afferrai. Inizialmente il suo profumo mi fece provare ancora un vago senso di vomito, ma lo sentii svanire piano piano. Iniziai a camminare lentamente, in direzione del mio futuro.

Mi avvicinai al bambino e accarezzai i suoi ricci scuri, chinandomi verso di lui. Eravamo entrambi segnati dalla fame e dalla mancanza di cibo ma per due motivi estremamente diversi: lui non poteva mangiare, io non volevo mangiare. Quella sottile, ma immensa differenza, ci portava ad appartenere a due mondi distinti che quel giorno volli riunire.

In un gesto deciso, spezzai il pane, un po’ come fece Gesù all’Ultima cena, e lo condivisi con quel bambino.

Lui non si fece pregare e inghiottì la pagnotta, sorridendo beato. Mi abbracciò e mi sussurrò un dolcissimo grazie, uno di quelli che non si dimenticano. Poi il suo sguardo andò sulle mie mani, che in quel momento tremavano, mentre stringevano la seconda metà del panino.

“Perché non mangi?” mi chiese il bambino, prendendo le mie mani fra le sue e sorridendomi. Era il primo sorriso, dopo tanto tempo, capace di scaldarmi il cuore. Quel bambino soffriva la fame perché era povero e non poteva permettersi neanche un pezzo di pane, eppure mi sorrideva… sorrideva a me, che avevo buttato quintali di cibo nel gabinetto di un ospedale. Mi vergognavo di quello che ero diventata.

A quel punto, come guidata da una mano invisibile, portai il pane alla bocca, masticai, lottai contro una nausea crescente, ma vinsi. In quel preciso momento intrapresi la strada giusta, quella del ritorno alla vita, alla mia vita.

“Grazie” bambino dal sorriso d’argento, grazie di cuore.

 

Oggi sono tornata a fare quello che facevo prima. Ma con una consapevolezza diversa. Sono stata dimessa dall’ospedale e adesso sto recuperato le lezioni scolastiche. Sì, mamma, non preoccuparti, ho anche fatto pace con la nonna: sapessi quanto ha pianto quando sono tornata a casa!

Cari mamma e papà, vi sto scrivendo questa lettera perché adesso avete qualcuno di cui potete andare fieri. La vostra bambina ha capito. Ha capito che non serve a niente tentare di cambiare sé stessi per piacere agli altri; e sono certa che voi mi volete bene così come sono.

Il cibo adesso non è più mio nemico: è invece la chiave di un percorso ancora molto lungo che mi farà crescere. Avevi ragione tu, papà, nel dirmi che il cibo è il nostro carburante.

Ho anche deciso , insieme a Samantha, di intraprendere un cammino di volontariato in Africa per aiutare i bambini poveri. Spero siate felici della mia scelta.

E siate sicuri di una cosa: d’ora in avanti non dimenticherò mai più di dare un significato alla preziosa vita che mi avete donato e guarderò con occhi diversi a tutto ciò che sta dentro e fuori di me. Perché ora ho capito che è nella semplicità di un pezzo di pane che si può trovare il senso, la giusta direzione.

Con infinito affetto,

Miryam

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