11/2015. Profumo di mele

Era un aquilone, o forse un giglio, o una farfalla? La forma della soffice nuvoletta, sospinta nel cuore dell’azzurro da una brezza lieve e ancora tiepida, sebbene il colore degli alberi e dei prati annunciasse l’imminente arrivo dell’autunno, mutava di continuo davanti ai suoi occhi incantati; Giada fissò a lungo quell’imprevedibile macchia bianca, scoprendovi all’inizio draghi, nani con buffi cappelli, vaporose fatine e, dopo un po’, un’arancia succosa, un dolce e croccante melograno, un fico maturo…capì di avere fame: non sapeva per quante ore fosse rimasta sdraiata fra l’erba verde, ascoltando il canto degli uccelli che si posavano sugli alberi da frutta e lasciandosi accarezzare dal gentile vento di settembre; le nubi sopra di lei viaggiavano e svanivano dietro alle vette innevate delle montagne, che già riflettevano i colori rossastri del tramonto.

Udì il richiamo della madre in lontananza: come al solito, era in ritardo per la cena, ma non riusciva a non perdere la cognizione del tempo, dinanzi a quel piccolo scorcio di infinito. Prima di affrettarsi verso casa, lanciò un silenzioso saluto al suo albero preferito, un giovane melo, un po’ staccato dagli altri: era stato piantato in occasione della sua nascita e Giada sentiva che era legato a lei, in qualche modo. Il suo profumo, un’essenza dolce e aspra insieme, che avrebbe riconosciuto tra mille, la accompagnò fino alla porta della graziosa casetta di campagna, dove l’attendeva la madre; poi fu sommerso dall’odore persistente del minestrone.

Quella sera, Giada si addormentò con una punta di malinconia per l’inarrestabile scorrere del tempo, per la fine dell’estate e delle lunghe giornate, illuminate dal prezioso turchese del cielo estivo.

L’indomani, quasi in risposta alla tristezza della bambina, sembrò che l’estate avesse deciso di restare un giorno in più: le strade sterrate emanavano calore, la polvere, che avvolgeva i coraggiosi passanti, era rovente; l’erba stessa sembrava assorbire lo scintillante oro del sole. Dopo pranzo, nonostante il divieto della madre, Giada uscì di nascosto per fare un giro nel paese deserto: siccome era l’ora più calda, tutti, anche i più temerari, si erano rifugiati nelle loro abitazioni e molti avevano persino chiuso le ante, sperando di trovare una tregua alla calura insopportabile. Sembrava una città fantasma: Giada conosceva ogni vicolo, ogni edificio, perché vi era passata moltissime volte, ma tutto appariva irreale sotto quella luce bianca e accecante.

Stava quasi per fare ritorno a casa, quando vide, appoggiata al muro scrostato, una piccola scala a pioli, che non aveva mai notato: era più nera della pece e così lucida da riflettere la luce, di modo che era quasi impossibile osservarla. Com’era possibile che non se ne fosse mai accorta? La scaletta conduceva a una sorta di piano rialzato, anch’esso dipinto di nero, ma lei non ricordava niente di simile in quel luogo. Inquieta, ma anche assai curiosa, decise di esplorare la strana costruzione; salita la scaletta vide che, poco più avanti, si apriva nel muro una porta, nera naturalmente, e insolitamente socchiusa.

Giada esitò, poi spinse con delicatezza la porta, che si aprì senza far rumore: finalmente le si offrì una vista dell’interno, un’unica spaziosa sala circolare, illuminata da molte finestre e decorata da diversi quadri appesi disordinatamente alle pareti. Al centro della stanza troneggiava un imponente cavalletto, nascosto in parte da una donna, che dava le spalle all’ingresso e dipingeva con rapidi ed esperti movimenti della mano. Anche lei indossava un lungo vestito nero. Improvvisamente si rivolse, senza voltarsi, alla bambina ferma sull’ingresso: “Ti stavo aspettando, sai?”

Giada sussultò e arretrò d’un passo; ma la donna la raggiunse e con un tono suadente la invitò a restare; la bambina era come pietrificata e non seppe far altro che seguire la donna verso il centro della stanza. Vide che sulla tela, come del resto negli altri quadri, erano dipinte nature morte: frutta, principalmente.

La donna parlava con una voce bassa, continua, quasi ipnotizzante; Giada non riusciva a distinguere chiaramente le sue parole, ma sentiva nascere sempre più forte dentro di sé il desiderio di disegnare, di dipingere, ma non una cosa qualsiasi: le sue mele preferite. La donna, infine, la congedò, augurandole buona fortuna per il quadro, come se avesse udito i suoi pensieri; d’altronde, Giada non era nemmeno sicura di  non averli espressi ad alta voce. Ci mise qualche secondo a riprendere il contatto con la realtà; il sole le feriva gli occhi, il caldo torrido la soffocava.

Corse più veloce che poté verso il frutteto e raggiunse il melo; colse tre frutti e si precipitò a casa, chiudendosi in camera, dopo aver recuperato in soffitta dei colori, un pennello e un cartoncino spesso. Quando ebbe finito i preparativi, emise un sospiro di sollievo: era pronta finalmente. L’esigenza di dipingere diventava sempre più irrefrenabile, non riusciva quasi più a controllarla; quando il pennello si posò sulla carta, fu come se non fosse lei a dirigerlo, come se la sua mano appartenesse a un altro. Lasciò che le dolci curve della prima mela si delineassero sulla carta bianca e la tingessero di un soffuso alone dorato, poi si affidò allo scorrere lieve del pennello, che ombreggiò abilmente la levigata superficie del frutto e, con un tratto deciso, ne definì il gambo. Giada fissava incantata quella figura così realistica che sembrava fosse sul punto d’uscire dal quadro e sapeva di non poter essere davvero lei l’artefice di una tale magia; catturata dal prodigio che si stava compiendo sotto i suoi occhi, si sentì pervadere completamente dal profumo diffuso della mela che teneva in mano, e la sua fragranza, fresca e fiorita, aspra e croccante, che pareva cogliere e conservare in sé ogni colore e sfumatura della bella stagione ormai passata, la eccitava e la stordiva a un tempo, s’infilava fra i suoi pensieri e li attorcigliava in un unico garbuglio, lasciandole un piacevole vuoto nella mente.

D’un tratto, però, Giada sentì che un odore estraneo, un misto di alcool e vernice, si sostituiva al familiare profumo, si insinuava bruscamente nelle sue narici, le lacerava e si spingeva con il furore di una fiammata ardente fin dentro di lei. Guardò la mela e, con indicibile orrore, si accorse che lentamente, pennellata dopo pennellata, si stava colorando di nero, lo stesso nero cupo e lucido della scala a pioli; lasciò andare la mela, che cadde a terra con un tonfo, e improvvisamente si accorse che la vernice si era già diffusa sulla mano che aveva tenuto il frutto e si diffondeva sempre più in alto, lungo il braccio, costante e inesorabile. Non riusciva più a sentire il lato sinistro del suo corpo: era come se fosse stato cancellato. Si voltò di scatto verso la porta chiusa della sua camera, con un salto la raggiunse, afferrò freneticamente la maniglia e si lanciò in corridoio per chiamare aiuto, ma tutto a un tratto l’oscurità la avvolse, il mondo sparì ai suoi occhi e di lei non rimase altro che un’ombra nera, persa nel vuoto, in assenza di qualsiasi luce.

Davide contemplò soddisfatto il suo capolavoro, finalmente ultimato, e appoggiò sulla scrivania di fianco al libro il pennarello nero; ora le illustrazioni non gli avrebbero più dato fastidio: aveva cancellato scrupolosamente ogni mela e, infine, anche la bambina, perché lo irritava, con quella sua passione esagerata per frutti così nauseabondi. La mamma lo avrebbe certamente sgridato, ma pazienza: doveva assolutamente liberarsi di quella visione insopportabile.

Fissò con odio le mele rimaste in un piattino. “Riuscirò a far sparire anche voi” disse ai frutti dorati, con aria di sfida.

One thought on “11/2015. Profumo di mele

  1. Un racconto che fa sognare.Leggendolo ho immaginato la bambina, il cielo, i suoi pensieri, lei mentre dipingeva. È stato come se fossi dentro al racconto , le immagini scorrevano davanti ai miei occhi. Bellissimo.

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