Non ebbe neanche tempo di proteggere gli occhi. Le persiane si sollevarono lentamente, con un ronzio.
La luce si spandeva per tutta la stanza. Filtrava attraverso quelle feritoie.
Dura, gelida.
Doveva esserci abituata, eppure non poteva fare a meno di sentirsi a disagio. Quella luce improvvisa e crudele penetrava tra le palpebre, feriva e lacerava gli occhi. Ogni mattina, quelle gocce azzurre che rilucevano -i suoi occhi- erano trafitte da quella luce spenta, metallica.
Si coprì istintivamente gli occhi. Sentì le sue mani offrirle riparo. Si tuffò in quella tenerezza prima di riemergere, completamente sveglia, nel mondo.
«Buongiorno Sonny» cantò lei, a occhi chiusi. Sapeva che era lì: ogni mattina, da quando aveva memoria, ricordava la figura di Sonny vicina al suo letto.
Ferma, rigida, dai contorni illuminati dalla luce buia che invadeva e soffocava la camera.
«Ben svegliata, padroncina Lyra» rispose, come ogni mattina, con lo stesso tono, metallico e cortese. Né acuta né calda, quella voce cristallina non nascondeva la sua origine artificiale.
S0nn1, il miglior modello di Domestic Android, era la composta figura davanti a lei. Puro platino, legamenti in pentacarbonio, processore interno in grado di ricostruire il movimento di ogni singola particella, dalla nascita dell’universo fino al secondo in cui la sua protetta si svegliava.
Aveva coniato lei quel soprannome. Quei numeri e quelle sigle erano troppo inumani: lei non voleva chiamare così il suo tutore.
Gli era stata affidata, secondo la Legge, per essere educata secondo i criteri stabiliti dal Supremo Consiglio Robotico. Questo, raccontava Sonny tramite la sua memoria predefinita, si era costituito quando i Fondatori nel lontano 2053 avevano capito che la specie umana si sarebbe estinta nell’arco di due anni. Lyra non capiva: le parole di Sonny erano troppo difficili. Già anche solo parlare di “estinzione” era un concetto difficile per lei, figurarsi poi “sfruttamento delle risorse”, “prosciugamento del pianeta”, e tante altre. Aveva solo otto anni, in fondo.
Quei Fondatori esposero le loro riforme nel Senato Mondiale, votate poi all’unanimità dai Robot Parlamentari, sostituti dei politici annoiati e poco produttivi.
La Legge per la Razza Umana sanciva l’affidamento di ogni uomo a un Robot. Lyra in prima persona non aveva mai visto i suoi genitori: era stata consegnata dalle Robot Nutrici a Sonny, perché “i Robot saranno gli unici a potersi prendere cura degli uomini senza che sviluppino tendenze autodistruttive”. Queste parole erano scritte nella Legge.
Lo sapeva perché Sonny gliele aveva lette: non aveva mai imparato né a leggere né a scrivere. Solo i numeri: Sonny la educava in questo.
Le aveva insegnato a parlare, per facilitare l’apprendimento e comunicare le direttive, la prima delle quali sugli argomenti di studio: matematica, programmazione, linguaggio tecnorobotico, uso di semplici programmi.
Lyra le seguiva tutte, diligentemente. Non negava di essere parecchio annoiata da quei numeri che scorrevano sullo schermo.
Cosa significavano? Erano l’unico linguaggio che conosceva, ma non esprimevano nulla.
«Sonny» chiese Lyra dopo pranzo «ma a che cosa serve tutto questo?»
«Padroncina, » così lui la chiamava, ma Lyra era troppo piccola per rendersi conto che lei e ogni altro umano avevano poco del padrone «Sono esercizi per controllare i parametri del funzionamento del vostro cervello, insegnarvi a comunicare con noi…»
«Ma non lo faccio già?» lo interruppe lei, con tenero fastidio e ironia nella sua voce.
«Ma non capisci come funzioniamo: i principi che regolano le sinapsi del nostro neurocerv…»
«Basta, Sonny, non ci capisco nulla!» urlò Lyra, le mani nei capelli e gli occhi chiusi, per trattenere le lacrime «Non capite nulla di noi, voi!»
Le parole uscirono come un fiume: anche se poche, grande era la loro forza. Una potente accusa, un grido disperato, che travolse il Robot.
Ma questo rimase impassibile. Non esisteva senso in quelle parole, per lui.
Era la prima volta che Lyra si sentiva così: intrappolata dai numeri. Ma il suo cuore aveva altro da dare.
Sfiorò con le dita il vetro della finestra. Guardò la fonte di quella luce spenta, il Sole Artificiale che offuscava il cielo. Costruito dai Robot quando l’inquinamento aveva reso nero il cielo e irrespirabile l’aria, ogni giorno quel Sole opprimeva con la forza superba della macchina la sua vita e quella di ogni uomo.
Non aveva mai visto un altro essere umano, se non due anni prima. Lo aveva visto correre attraverso il giardino di casa sua, da quella stessa finestra. Lui l’aveva notata, e si era fermato. Le aveva sorriso, poi si era voltato e aveva ripreso a correre. Lo ricordava così: camicia bianca, jeans -così li aveva definiti Sonny-, capelli castani, spettinati, ribelli, occhi scuri, color nocciola. Aveva un qualcosa in mano, però, che Sonny si era rifiutato di definire.
«Sonny…» sussurrò, triste «Mostrami il ricordo del ragazzo…»
Il robot annuì, e proiettò nell’aria un ologramma.
«Cosa ha in mano?» chiese lei. Gli occhi azzurri erano liquidi, tristi per come l’aveva trattata Sonny, e felici di vedere quel ragazzo una seconda volta.
«Rispondimi, ti prego…»
«Si chiama…» fece una lunga pausa prima di continuare «Libro.»
«E che cos’è? Ne abbiamo in casa?»
«È un insieme di parole, scritte da un uomo. Ne abbiamo tanti. Nella Villa del Costruttore dei Fondatori, questa casa, c’è nell’ala nord una biblioteca.»
«Ma non ci può andare!» Si affrettò ad aggiungere «È proibito dalla Legge che gli umani leggano e soprattutto scrivano.»
Biblioteca… Lyra ignorò Sonny e pensò a quella parola: la prima che non conosceva e voleva imparare. Voleva capirne il senso, cercarlo, trovarlo.
Quella sera, agì.
Sgattaiolò ed evitò Sonny attraverso il vasto sistema di areazione della casa, che depurava l’aria avvelenata al di fuori della cupola isolando la villa dal mondo morto di fuori.
Così raggiunse l’ala nord, dove Sonny aveva affermato esserci la biblioteca, convinto che mai l’avrebbe raggiunta.
La porta non era blindata, come si aspettava: in fondo, chi mai avrebbe potuto entrare?
Le bastò sfiorare il metallo gelido che quello scomparve nel muro.
Di fronte a lei vi era il buio.
Poi, regolarmente, tante piccole luci azzurre cominciarono a correre nelle interlinee che delimitavano i ripiani delle librerie. Di fronte a lei si estendevano innumerevoli corridoi, ognuno con almeno trenta piani scaffali stipati di libri. L’enorme biblioteca si reggeva sul vetro luminoso e azzurro: tutti i libri sembravano volare.
Camminò tra i libri, meravigliata. Vedeva che sul loro dorso vi erano scritte delle parole. Si sforzò di leggere, di capire il senso di tutte quelle lettere.
Non ci riusciva.
Continuava a provare, eppure tutto era vano.
Distrutta, si lasciò cadere per terra, appoggiandosi al muro di libri. Affondò il viso nelle mani e pianse.
Stava cercando di avvicinarsi alle parole in un modo diverso che con i numeri! Provava a sentire la ruvidezza del dorso, il piacevole odore delle copertine, sbiadite e ingiallite dal tempo.
Cosa mancava?
Chiusa nelle sue lacrime, si spaventò quando un libro le cadde vicino.
Perché non riesco a leggerti? Cosa sono le tue parole?
Lo prese tra le mani e lo strinse al petto, accarezzando la copertina.
Voglio conoscerti, vivere le tue parole!
Con gli occhi velati dalle lacrime, guardò la copertina del libro.
E lesse.
Odissea!
Sussultò, e poi pianse e poi rise.
Era arrivata a capire, finalmente, come doveva sentirli.
Strinse il libro a sé, lo accarezzò di nuovo, e tenendolo in mano andò avanti tra le file, e mano a mano leggeva: La bussola d’oro, Divina Commedia, Sulla natura delle cose, Iliade. E accanto a questo, un buco vuoto.
Da lì era caduta l’Odissea.
Si arrampicò e guardò in quello spazio: vi era un biglietto.
Lo prese tra le mani, e lesse. Lesse con il cuore:
Ho preso in prestito qualche libro: non sai quanto ho dovuto resistere per non prendere l’Odissea.
Nell’attesa che leggere ti faccia conoscere il mondo, e che ti porti da me, ti lascio un indizio.
Non il mio nome, ma il suo significato.
Luce.