23/2015. Yaanyada ee Abu

I personaggi e i fatti di questo racconto non sono reali, ma si ispirano a situazioni ricorrenti in certi contesti.  L’idea per la storia è stata suggerita dal lavoro dei tanti medici volontari del “Programma Italia”, documentato sul sito di “Emergency” e da un incontro con Cecilia Strada, per la rassegna: “Molte fedi sotto lo stesso cielo”. 

“YAANYADA EE ABU”

Abu aprì gli occhi, stancamente e faticosamente, e si ritrovò a fissare la schiena di Hamza, il suo compagno di viaggio e di lavoro, sdraiato sulla branda in parte alla sua. Dormivano tutti insieme perché fosse più facile tenerli sott’occhio, pensò  Abu. Ognuno avrebbe potuto andarsene a suo piacimento, ma nessuno l’avrebbe fatto, così tutti si lasciavano controllare, come se in realtà fossero carcerati. “Dove sono?”, si chiese Abu. Aveva sognato il suo Paese, il mare, l’oceano, il Sole, la terra rossa e secca, le rocce e le montagne, i laghi lunghi nell’entroterra.

Le voci che urlavano in quel momento lo chiamarono però altrove. In pochi secondi  Abu ripercorse il viaggio di qualche mese prima: era partito dalla Somalia, aveva attraversato il deserto scortato dai carovanieri berberi, era arrivato al mare e lo aveva solcato in mano agli scafisti tunisini, finalmente poi era sbarcato ed ora si trovava nello scantinato di un’azienda agricola vicino a Caserta. In Somalia per vivere Abu scappava dalla guerra, dai proiettili e dalla fame, in Italia raccoglieva “yaanyada”, pomodori.

Abu si alzò e, con un colpetto alla spalla, convinse Hamza a fare lo stesso: se si fossero rifiutati li avrebbero cacciati e, senza permesso di soggiorno, qualcuno li avrebbe riportati nei centri di accoglienza. Essere accolti è cosa di poco tempo, pensava Abu, dopo essere sbarcato a Palermo, ma si accorse di essersi sbagliato, dopo due mesi di permanenza nel centro. Aveva deciso di scappare con Hamza, perché, nel frattempo, avevano trasferito sua moglie Farah e sua figlia più a Nord e perché voleva finalmente lavorare e costruirsi una nuova vita in Italia.

Nell’azienda agricola Abu faticava dieci ore al giorno, per quattro euro all’ora, tutta la settimana, tranne la domenica. Con lui c’erano altri otto braccianti. Abu ne osservò le facce stanche, mentre passavano tra la fila di brande per salire le scale del seminterrato e iniziare la giornata di fatica. Lui fu l’ultimo ad uscire. Era  mattino presto ed era luglio. Abu pensò che i momenti della giornata più stancanti sarebbero stati  tra mezzogiorno e le tre del pomeriggio, fino ad allora il fresco della notte appena passata avrebbe dato un po’ di sollievo.

Iniziarono a raccogliere i pomodori, seguendo il lavoro della macchina per la raccolta, in fila dietro al trattore, chini a terra, con una cesta sulla schiena, dove mettere la verdura che rimaneva al suolo. Tutto era silenzioso e mesto in quel loro stare ingobbiti con gli occhi bassi. Piano piano la macchina giunse in fondo al campo e, mentre si invertiva il senso di marcia, gli otto uomini ebbero tempo per riposarsi. Ad un tratto, dopo essersi del tutto sollevato dal suo stato di torpore, Abu ricordò che non avevano ancora fatto colazione. La cosa era quasi ordinaria,  ma il tutto gli incuteva tristezza… non che avesse fame: in Somalia aveva digiunato più a lungo. Gli avevano raccontato che l’Italia era il Paese dell’arte, della cultura, del buon cibo, ma lui ed Hamza avevano fino ad allora assaggiato solo i pasti pronti del centro d’accoglienza, poi la pasta al pomodoro, il riso e i legumi in scatola che venivano dati loro durante la giornata lavorativa. Il Paese da cui era stato adottato aveva deluso le sue aspettative riguardo alle prospettive alimentari e, quanto a quelle lavorative, non c’era troppo da sperare.

Il trattore riprese ad avanzare e, al fianco di Hamza, Abu ricominciò a camminare chino. Non era mai stato il tipo che si sarebbe facilmente arreso. D’altronde, se così non fosse stato, difficilmente tutta la sua famiglia avrebbe resistito al viaggio verso l’Europa. Abu pensò con commozione all’amico, curvo sulla terra vicino a lui. Era l’inizio di marzo ed erano arrivati in Tunisia. Prima di imbarcarsi, avevano aspettato in una palazzina di proprietà degli scafisti. Andarono al porto la sera del venerdì, la mattina avevano pregato perché il viaggio andasse a buon fine. Hamza, a differenza di Abu, aveva permesso che sua moglie finisse su un’altra barca. Probabilmente questa aveva avuto una sorte sfortunata: il mare era piuttosto agitato. Ovviamente egli non aveva avuto il coraggio di dirlo ad Hamza, perché lui si era attaccato alla speranza che la sua Fatima fosse stata portata in un altro centro di accoglienza, anche se, di notte, lo si sentiva piangere sommessamente.

Abu non si sarebbe  comunque scoraggiato. Lui ed Hamza accumulavano soldi, nascondendoli nella federa del cuscino, per evitare che a qualcuno degli altri lavoratori venisse la tentazione di portarli loro via. Prima o poi sarebbero riusciti a prendere un treno per il Nord. Una volta ritrovata Farah, tutto sarebbe diventato più semplice.

Da qualche giorno Abu aveva un brutto mal di stomaco. Si era trascurato, ma non volle dire nulla al suo datore di lavoro. Aveva paura che lo avrebbe cacciato e lui ed Hamza non potevano separarsi. C’era anche un’altra possibilità: il capo aveva soccorso un bracciante ferito, fornendogli i medicamenti necessari. La cosa si era conclusa così, per quanto ne sapeva Abu, il bracciante non aveva più lamentato dolori. Egli però non si fidava. Pensò allora di cercare quell’ambulatorio, che aveva visto sulla strada, durante la fuga e che c’era anche al centro di accoglienza. Sapeva che non gli avrebbero chiesto i documenti e che la cura sarebbe stata gratuita. La domenica, ripercorrendo a ritroso i passi di circa un mese prima, lo raggiunse, con la mano premuta sullo stomaco. Entrò, c’era una lunga fila, perlopiù di braccianti come lui, in attesa.

Abu fu visitato. Il medico gli prescrisse i farmaci per una gastrite, consegnandogli una scatoletta:

“Prendili dopo i pasti.”

Gli disse, portando una mano con le dita unite verso la bocca, come per addentare qualcosa. Abu annuì, con un movimento energico della testa. Aveva capito, anche se non se la cavava troppo bene con l’italiano.

“Sì”, disse, “dopo mangiato!”

All’azienda agricola un’altra settimana passò, ma molto lentamente, perché i dolori non diminuivano, nonostante i medicinali. Tuttavia, Abu continuava a camminare, come tutti gli altri, chino, dietro al trattore. Un giorno Hamza gli chiese se andasse tutto bene. Abu annuì, nascondendo una smorfia.

La domenica successiva Abu tornò all’ambulatorio, chiese del dottore dell’altra volta e si fece visitare di nuovo. Il dottore disse:

“Non va tanto bene. Non hai preso le pastiglie?!”

“Sì”

Disse Abu, annuendo energicamente, come al solito.

“Dopo mangiato?”

Chiese il dottore, ripetendo il gesto della domenica precedente.

“Sì”

Disse Abu.

“Ma quante volte al giorno?”

“Una!”

Il dottore sgranò gli occhi e imprecò dentro di sé.

Ad Abu fu prescritta un’altra medicina, da prendere due volte al giorno, anche senza avere mangiato. Il dottore promise che prima o poi l’avrebbe aiutato e gli disse di tornare, se avesse avuto ancora bisogno. Abu annuì.

La sera Abu ritornò all’azienda e andò a dormire. All’alba, risvegliatisi, lui e gli altri si allinearono come sempre dietro al trattore e iniziarono a raccogliere, chini, i pomodori rimasti a terra. Mentre raccoglieva Abu pensava: “Questo è per Ali, mio padre, che perse una gamba, pestando una mina, questo è per Jama, il fratello di Farah, che non aveva cibo da dare da mangiare ai suoi figli, questo è per Scego, mia zia, che morì per un proiettile, mentre tornava dal mercato, questo è per Hamza e per sua moglie Fatima, che si è persa nel mare,  questo è per mia figlia Dirie, perché possa avere un futuro in Europa, questo è per me,  Abu, che sono fuggito dalla Somalia per scappare dalla fame e dal fuoco dei fucili ed ora in Italia, per sopravvivere, raccolgo yaanyada, pomodori, e mangio una volta al giorno”.

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