Io sono Ophélia, la ragazza immigrata che abita al primo piano di una modesta casa in una cittadina del Bel Paese, l’adolescente di 17 anni arrivata in Italia all’età di 11 anni per ritrovare quel padre rimasto assente per oltre 10 anni e avendo come unico pilastro, guida e riferimento la mamma Odilia. Ricordo ancora il giorno in cui abbandonai la mia patria natale, la culla così rassicurante in cui ero cresciuta, in assenza sì di un padre, ma in presenza di solide figure maschili quali quelle dei miei zii: ho ancora in testa l’immagine dei nonni in aeroporto con gli occhi turgidi di lacrime, il respiro soffocato e l’inferno nel cuore, incapaci di liberare qualsivoglia parola dalla gola secca, e tutta la famiglia riunita intorno a noi, come ultimo tentativo di preservare l’equilibrio del nido familiare. Non dimenticherò mai l’espressione di affranto e afflizione negli occhi dei miei cari quando varcai ,insieme alla mamma, la soglia dell’ultima porta che consentiva ancora di agitare le mani, come pesci ancora ancora viventi, ma fuori acqua, dibattendosi con veemenza, in un ultimo saluto : pareva che ci dirigessimo dritto verso la morte, che dietro l’oceano, in quell’Italia dalla grande bellezza, avremmo vissuto una terribile catabasi, nonostante quel viaggio ci offrisse la possibilità di ricongiungerci a Karim, il padre e marito così lontano da risultare quasi inesistente e che non rispondeva affatto al principio tomista “Agere sequitur esse”.
Dopo lunghe ore di volo, atterrammo in Italia, completamente spaesate, ma eccitate all’idea di poter finalmente beneficiare del gaudio familiare non udito e mai veduto. Quando uscimmo dalla sala d’accoglienza, lo vidi in piedi, beato. La mamma gli corse incontro, io non osai e le rimasi dietro, gli occhi fissi al suolo. Lui mi salutò, incerto se esplodere di gioia e abbracciarmi oppure rivolgermi solamente un gran sorriso: si decise e mi diede un timido bacio sulla guancia. Lungo tutto il tragitto che portava a quella casa, o meglio inferno (ma non sospettavamo nulla, non proferii parola. Stetti semplicemente ad ascoltare la mamma e Karim, che conversavano amabilmente. La sua voce era così diversa da quella che aveva durante le nostre micro-conversazioni al telefono, quelle in cui fingeva di essere presente per me e io facevo altrettanto, perché si sentisse utile.
Dopo due ore di viaggio arrivammo nella nostra casa. Lui l’aveva decorata, aveva cucinato, pulito tutto, si era impegnato per dare forma, sebbene fosse una forma ibrida, ad una sorta di guscio familiare e rassicurante. Ma non mi sentivo a mio agio. Forse presagivo tutte le sofferenze e le vicissitudini che mi sarebbero piombate addosso, le lacrime che ero , ineluttabilmente, destinata a versare.
Ci installammo e, con molta cautela, iniziammo ognuno ad assumere il proprio ruolo. Fu ed è ,tuttora, molto difficile dar vita e mantenere quel focolare domestico. Ci ritrovammo ben presto confrontati alle difficoltà di essere moglie, padre e marito, e ,infine, figlia. I problemi e le liti divennero routine. Troppe incomprensioni, numerosi qui pro quo, infiniti dissensi, poca voglia di cambiare, di ascoltare l’altro, di compiere un’oggettivazione della soggettività. Mamma Odilia aveva ben chiaro il suo obiettivo, e non demordeva nel suo intento di tenerci uniti. Karim ci aveva nascosto troppe cose, aveva preparato il nostro arrivo, ma ci aveva anche riservato numerose spiacevoli sorprese: debiti, problemi d’alcol, di fumo… Fui costretta a crescere e maturare ben prima del previsto, ma non parlai con nessuno, mi costrinsi a richiudermi dentro di me e a non permettere a nessuno di penetrare i miei segreti e di scoprire le mie ferite. La mamma voleva cambiare Karim, aiutarlo ad uscire dal vicolo cieco in cui era sprofondato, ma egli non accettò mai. Dopo dieci anni in cui era stato padrone incontestato della propria vita, la sola idea di essere comandato, così percepiva l’aiuto di sua moglie, lo trasformava in una bestia infernale. La mamma cercò di sopportare e non si arrese così facilmente: la nostra famiglia era ciò che le rimaneva di più caro dopo aver abbandonato il suo lavoro, i suoi amici, le sue passioni, il suo paese. Ma anche a lei toccò il suo supplizio, non resse la solitudine, non sopportò bene la lontananza dai propri cari, e presto cadde in depressione. Fu confrontata ad una nuova lingua, a nuovi esami da preparare per poter lavorare, agli insuccessi ripetuti, alle autorità che non le riconoscevano i documenti che accertavano che lei fosse ostetrica. Si sentì spersonalizzata, perse della sua allegrezza e del suo splendore, sprofondò nella tristezza, nella disperazione. Si sentì inutile sia come moglie sia come madre.
Io dal canto mio, lottai per rimanere bambina, e mi concedetti più volte di piangere, ma sempre di nascosto. Non parlavo con nessuno, non riuscivo ad esprimere il disfacimento che vivevo. Dovetti cercare un mezzo per evadere dalla realtà, e fu così che mi rifugiai nella lettura e nello studio. In tre mesi imparai perfettamente l’italiano e diventai una delle migliori della classe che frequentavo. Mi ancorai ai bei voti per andare avanti. Essi rappresentavano l’unica soddisfazione nella mia vita. Per almeno tre anni, mi abituai a vedere Mamma Odilia sempre con gli occhi rossi di pianto: lei si concedeva il lusso i cedere davanti a me, mi abituai a sentire Karim gridare e urlare, ma anche a improvvisi episodi di tenerezza. Egli mi sembrava un mutante, un “vir malus dicendi peritus”, capace di ferire con le parole taglienti. Gli rivolgevo la parola solo per il minimo indispensabile, non gli correvo incontro quando tornava dal lavoro, non mi confidavo con lui. E lui faceva lo stesso. Quella casa sembrava una torre di Babele, eravamo immersi in una dimensione caotica, complessa, intricata, e nessuno di noi era in grado di comprendere i rimanenti.
Karim non aveva buoni rapporti né con mamma Odilia né con me. Fin da piccola avevo sempre odiato chi si permetteva di fare del male a mia madre. Ora mi trovavo in un’impasse. Non sapevo se fosse lecito odiare il proprio padre, ma non avevo a chi chiedere. Mamma Odilia era solita esortare entrambi a calmarsi e a cercare compromessi, perché si ha un solo papà nella vita e Karim aveva solo me come figlia, dovevamo imparare ad amarci. Io non riuscivo, non ero capace di parlargli, davanti a lui non ero in grado di proferire parola, non per timore di Karim, ma semplicemente non avevo la capacità di rompere il ghiaccio, la sua assenza per tutta la mia infanzia mi aveva paralizzata. “Il vero contatto fra gli esseri si stabilisce solo con la presenza muta, con l’apparente non-comunicazione, con lo scambio misterioso e senza parole che assomiglia alla preghiera interiore.”, pensavo. Ma non riuscivamo nemmeno a stabilire quel contatto discreto e repentino. Non mi sembrava possibile recuperare tutti quegli anni persi, non l’avevo mai abbracciato, non mi aveva mai cullata. Il semplice contatto fisico con lui rappresentava, per me, uno sforzo colossale, ed è per tale ragione che non era mai avvenuto tra di noi niente di paragonabile ad affetto o tenerezza.
Crescere senza un padre ti
Priva di identità…
Ora che lo hai ritrovato,
Il vuoto causato dalla sua mancanza
Persiste
Il dolore aumenta sempre più
Perché non sai
Essere sua figlia
e non sa essere tuo padre…
Non lo sai amare
E non te lo sa insegnare
A gelare ed irrigidire ancora di più il mio rapporto con Karim erano le incessanti liti con Mamma Odilia. Karim si trasformava in “dimonio dagli occhi di bragia” quando litigava con la mamma. Non osavo intervenire, per paura di peggiorare le cose. Assistevo impotente mentre ,con le sue parole, Karim lacerava l’anima della mamma. Il mio unico rimedio per lei era stringerla forte contro il mio petto, dopo che Karim aveva sbattuto la porta e se n’era andato via. Ed era in questi momenti che sentivo di dover infondere forza e amore alla mamma, perché non si lasciasse andare del tutto. Avevo l’impressione di udire le sue parole segrete, rivolte a Karim:
Io ti ascolto
E dentro di me si scatena l’inferno
Tu urli, ringhi
Parole atroci, feroci, terribili
E il mio lamento si arresta in gola
E il dolore si diffonde tra le mie membra
E tu, furente, mi lanci occhiate di fiamma
E il tuo odio mi avvelena
E io ,poco a poco, mi lascio morire
Karim avrebbe potuto essere un perfetto sofista, allievo di Gorgia. Sapeva usare sapientemente le parole, per ferire, ed era riuscito a convincere Mamma Odilia che lei fosse inutile, una cattiva sposa, un mobile disgrazioso, un peso per tutti. “… le parole: alcune affliggono, altre dilettano, altre incutono terrore, altre infiammano chi ascolta, altre infine stregano e avvelenano l’anima, con i poteri della persuasione maligna”. Egli aveva coscienza delle sue abilità retoriche, ma ne faceva un uso riprovevole ed ignobile. Karim possedeva la “τέχνη ρητορική”, l’arte del saper parlare. Come affermò Catone, è fondamentale che colui che è esperto nel dire sia una persona di grande valore, ma Karim non rispondeva a tale principio.
Marco Fabio Quintiliano riteneva che la retorica servisse a formare l’uomo e a prepararlo a svolgere la sua professione in costante rapporto con la società. Per questo, l’attenzione all’educazione dei giovani, la grande considerazione della παιδεια ( educazione) era un tratto che, accomunava il greco Isocrate e Quintiliano. Tuttavia, Karim non sembrava curarsi né di trasmettermi il buon esempio né di insegnarmi a fare un uso onesto e rispettoso delle mie facoltà intellettive. Egli non aveva mai avuto coscienza del valore della famiglia, dell’incredibile forza e potere delle sue parole e dell’uso che avrebbe potuto farne per rinsaldare i debolissimi legami che ci tenevano uniti in una finzione patetica. “Cui Prodest?”…a chi giovava tutto ciò?
A differenza di Isocrate, Quintiliano scrisse un trattato didascalico, molto simile ad un manuale scolastico, intitolato “Institutio Oratoria” e articolato in XII libri. Quintiliano parla qui dei tre tipi di oratoria, dei tre compiti dell’oratore (“docere, movere, delectare”), e delle capacità grazie alle quali è possibile formulare un buon discorso: l’inventio (reperimento di argomenti efficaci), la dispositio (modo di organizzare gli argomenti trattati), e l’elocutio (individuare lo stile e le risorse espressive più adatte al discorso). Karim possedeva la “vis verborum”, ma non riuscivo a capacitarmi del fatto che la sua mente fosse così perversa e che il suo unico intento fosse quello di fare del male alla mamma. Sapevo che ,presto, sarebbe toccato a me, ma io ero pronta ad affrontarlo. Volevo usare le parole in un modo radicalmente diverso dal suo perché “Iniuriam ipse facias, ubi non vindices”( Non vendicare un’ingiustizia, equivale a commetterla). Volevo commuoverlo, volevo toccare le corde più profonde del suo animo.
Fu in una calda giornata d’estate che mi resi conto del potere che la parola aveva, il potere di unire, di rafforzare i legami, o meglio di crearli. Ero in camera mia, in salotto un’ennesima lite tra Karim e Mamma Odilia. Egli aveva varcato il limite. Avevo deciso di agire. Quando uscii in salotto vidi la mano di Karim alzata: stava per compiere un gesto folle, un gesto che mai aveva compiuto, stava per schiaffeggiare sua moglie. Lo fissai, mi ignorò. La mamma ,incredula, non si abbassò a supplicarlo. Era il momento. Rimuginai dentro di me quella strana parola ,che mai avevo pronunciato. Karim ringhiò un insulto ulteriore prima di muovere quella mano. Io urlai “PAPÀ”. Karim rimase immobile. Delicatamente, vidi una lacrima scendere lungo il suo viso, poi si trasformò in un pianto sommesso. Non l’avevo mai chiamato papà. Non sapevo che ne soffrisse così tanto. Mi abbracciò, mi strinse talmente forte che quasi mi mancò il respiro. Lievemente, mi sussurrò delle dolci parole: ”Ti amo, figlia mia. Perdonami.”. Poi si inginocchiò di fronte alla mamma e le chiese di perdonarlo. Le parlò come un marito e non come un tiranno né un manipolatore. Sembrava così sincero, che mamma Odilia non resistette. Gli disse di alzarsi. Ci stringemmo in un abbraccio familiare, bramando di poter, finalmente, gustare della gioia del focolare domestico.
…“Concordia parvae crescunt, discordia maximae dilabuntur”…