28/2015. I frutti di Cerere

Il sole stava ormai tramontando, adagiandosi dolcemente sulle colline dell’entroterra calabrese. Le tenebre, che piano piano avanzavano, portavano fresco sollievo agli animi accaldati e irrequieti del piccolo paese nascosto tra le colline.

Silvio, prigioniero del suo diroccato balconcino, sedeva a un piccolo tavolo di legno e imbastiva un pasto frugale prima di dormire. Con l’indice della mano destra percorreva il bordo irregolare del piatto e con l’altra mano portava alla bocca l’ultima fetta di pomodoro rimasta. Pomodoro che, naturalmente, aveva colto giusto quel pomeriggio nell’orto lasciatogli dal padre che aveva sepolto da tempo ormai in quelle terre. Pomodoro che era di una tonalità di rosso pura: appena lo spaccavi la polpa succosa liberava un odore di sole, d’erba, di terra; vi invito a provare se non mi credete. Masticato l’ultimo boccone, gli si dipinse sul volto un sorriso quasi infantile: sapeva che era il momento di intingere del pane rustico in quel balsamo di succo di pomodoro e olio. Gli occhi quasi istintivamente si chiudevano come se tutti i sensi volessero convergere verso il palato per assistere a quell’epifania.
Svegliatosi, si vestì lentamente.
Presa la zappa, inseriti un’ arancia e qualche avanzo in un fagotto, si incamminò verso la campagna. In lontananza si udivano canticchiare altri contadini come lui, Silvio non li aveva mai voluti incontrare: d’altronde non sentiva il bisogno di conoscerli, di scambiare convenevoli o parlare del tempo o del raccolto, gli bastava sapere di non essere solo.
La stagione dell’olio stava arrivando e Silvio e i compari degli orti vicini portavano le verdissime olive raccolte a un vecchio frantoio di un loro altrettanto vecchio amico con il quale, se l’annata era stata fruttuosa, dividevano il guadagno. La raccolta prometteva bene.
Si pensava già agli amici milanesi che, da qualche ufficio polveroso, avrebbero sbraitato per ore al telefono con camionisti e contadini per riuscire a mettere le mani sui quei dieci o quindici litri di oro puro.
Per non parlare poi delle arance. In paese ogni inverno arrivavano due allegri vegliardi da Brema per fare scorta di arance e limoni, ti guardavano e, rossi dalla timidezza, ti dicevano: “Sono molto buoni!”. E poi li vedevi partire con arance che uscivano pure dai finestrini: che coppia!
Mentre copriva con leggerissimi veli di cotone le ultime olive pensava a loro e ai vecchi compagni di scuola che avevano abbandonato ormai da tempo il paese. D’estate però tornavano, richiamati a casa dal ricordo di certi odori, di certi sapori, che nemmeno il tempo era riuscito a cancellare.
D’estate non si aveva mai un attimo di pace perché gli amici più cari e i parenti tornavano e si mangiava tutti insieme portando in tavola le primizie e i raccolti migliori.
Poi arrivava settembre e la vendemmia. La aspettavano tutti, qualcuno tornava anche in paese,  prendeva qualche giorno di ferie per tornarci. Si andava per vigneti raccogliendo l’uva che una volta vino veniva messo in grandi botti di legno, attendendo l’invecchiamento.
Forte era forte, e lo capivi dal colorito paonazzo che assumevano i nasi prominenti dei più anziani.  I ragazzi lo mischiavano alla frutta, passando le notti insonni, ballando.
All’angolo della sua via Silvio faceva, insieme a massaie e compari, le frittelle o meglio le “zippole”.
Farina, patate e, se eri fortunato, ci trovavi dentro qualche piccola acciughetta salata.
Zippole e vino, ma poi anche peperoni, capretti, ghiri. Le feste erano così. Si bazzicava  per il paese, assaggiando i più svariati manicaretti offerti da ogni quartierino. Si improvvisavano grandi tavoli per strada, traffico non ce n’era, e la gente andava e veniva, ci si sedeva e si mangiava insieme. Ai ragazzini più piccoli le nonne davano finocchi e carciofi perché li aggiungessero alle tavolate, così che non mancasse mai niente a chi passava per caso e si fermava per un boccone.
Svegliatosi, Silvio lentamente si vestiva. Prese la zappa e qualche avanzo per pranzare.
Incamminandosi verso l’orto, vedeva crescere sul ciglio della strada del finocchio selvatico; l’aroma, diffusosi, lo accompagnava. Alzando la testa  contemplava le colline e scorse da lontano il suo orto e qualche compare già al lavoro. Faceva quella strada da sempre, non si era mai allontanato troppo dal suo paese. Tanti amici, compagni di infanzia, erano partiti, scappati da un Mezzogiorno difficile, ma lui no. Lui era rimasto, aveva deciso di non partire. Gli chiedevano spesso che cosa ci facesse ancora lì ma non trovava risposte.
Coltivava tutti i giorni il suo piccolo lembo di terra, insieme a pochi altri. Difendevano avidamente una cura dei terreni quasi scomparsa, schiacciata dalla grande industria. C’era qualcosa di singolarissimo tra lui e la sua terra, una sorta di legame indissolubile.
Silvio ne era profondamente persuaso, ma a quegli uomini, frettolosi e sbrigativi, non poteva certo spiegarlo.

One thought on “28/2015. I frutti di Cerere

  1. Complimenti. Sinestesia. Il tuo racconto mi ha portato sotto il naso i profumi delle delizie di cui parli…e mi sembra quasi di gustare con le papille i prodotti di cui parli. Poesia, davvero. Fantastico…

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