Forte. Ambiziosa. Determinata. Ribelle.
Ecco come mi sentivo a diciott’anni: imbattibile.
Ricordo ancora la sera del 23 settembre 1990, quando ricevetti la telefonata che mi comunicò l’accesso alla facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università degli Studi di Milano.
Mia madre cercò di farmi desistere con tutte le sue forze: mi aveva già programmato tutta la vita.
Prima di tutto, concluse le superiori, avrei studiato per insegnare nella scuola elementare del paese, mi sarei sposata, possibilmente presto, e avrei messo su famiglia.
Non mi entusiasmava questa prospettiva. Sognavo di avere una brillante carriera. Volevo rompere con la tradizione: non sarei mai diventata come mia madre.
Finalmente nel 2002 vinsi il concorso pubblico per diventare funzionario medico della polizia statale.
Ero l’unica donna dell’unità, ma questo non mi spaventava. Gli anni all’università avevano indurito la corazza che indossavo magnificamente.
Amavo il mio lavoro, non perchè fosse emozionante un caso di omicidio. No, nel modo più assoluto. Avere a che fare tutti i giorni con la morte di natura criminale fa male, malissimo. Ti senti spaccare dentro. Analizzando scrupolosamente tutti gli indizi lasciati sul corpo, cerchi di ricostruire cosa sia successo, per rendere giustizia a quella che, una volta, era una vita.
Amavo il mio lavoro perchè lo ritenevo importante e nobile.
Studiare la morte logicamente pone costantemente di fronte a domande scientifiche e, soprattutto, esistenziali.
Ogni morte era orrenda allo stesso modo, ma ognuna aveva qualcosa in sé che svegliava il mio interesse.
Ancora oggi, a distanza di anni, non saprei descrivere cosa fosse.
Essendo l’unica donna dovetti faticare il doppio per guadagnarmi rispetto e riconoscimento, ma pian piano strinsi amicizie e iniziai a farmi un nome. Distinguermi diventava un’impresa sempre meno impossibile.
Una sera decidemmo di uscire tutti insieme, il pretesto era brindare alla chiusura di un caso in corso da molti anni.
Una serata semplice, tra colleghi della scientifica e qualche poliziotto. Fu lì che lo incontrai, la mia maledizione.
Irrimediabilmente attratta dai suoi modi di fare, dalle sue espressioni, da quelle occhiate furtive di chi la sapeva lunga.
Iniziò a farsi vedere più spesso nella nostra compagnia.
Dopo pochi mesi ci fidanzammo.
A soli 33 anni, il 17 febbraio 2005, dovetti affrontare una delle scelte più importanti della mia vita.
Avevo una spessa busta avorio tra le dita, ma scottava come una bomba.
Già pregustavo il momento in cui l’avrei fatta esplodere.
Tre.
Due.
Uno.
Quando il mio ragazzo si alzò da tavola e, davanti ai miei genitori, mi disarmò: mi chiese di essere sua moglie.
Panico. Non poteva succedere proprio a me, non la sera della mia promozione.
Mi era stato offerto l’incarico di medico competente per le strutture della Polizia di Stato per la provincia di Milano.
Opportunità che avevo colto al volo! Senza riuscire a guardarlo negli occhi, gli misi in mano la busta, come se quella fosse la risposta alla sua domanda.
Si stropicciò i capelli e mi sorrise: “Amore ce l’hai fatta! È fantastico!”.
Era felice per me.
Non capiva che non sarei mai stata una buona sposa? Avevo destinato tutta la mia vita alla carriera. Non avrei avuto tempo per mio marito e, soprattutto, non avrei mai accettato che un matrimonio minacciasse la mia indipendenza.
I ritmi di lavoro sarebbero stati duri, lo stress, le responsabilità.
Tuttavia, più ragionavo e più mi rendevo conto che non ero disposta a scendere a compromessi. Non avrei mai accettato che la promozione sacrificasse il mio matrimonio, né che il matrimonio terminasse la mia carriera .
Parlando con lui, le mie paure iniziarono a diventare sempre più leggere, anche se non mi abbandonarono mai del tutto.
Nonostante i dubbi accettai il rischio di fidarmi di Giovanni e delle sue promesse.
Ci sposammo subito dopo il mio trasferimento.
Avete mai osservato con attenzione una statua di ghiaccio dal vivo?
Notando le piccole goccioline d’acqua che colano, o la luce che scivola sulla superficie del ghiaccio che si scioglie?
Io no, però ho avuto la fortuna di cogliere molte altre piccole meraviglie nella mia vita.
Un fiore. Chi non ne ha mai visto uno pensando: “Che bello, lo regalo alla mamma” ?
Lo dico perché lo so.
Ogni volta che i miei figli giocano in giardino, ritornano sempre con le tasche piene di margherite.
Immaginate la gioia di mio marito, quando si accorge che i suoi fiori sono stati strappati.
Giovanni è buffissimo quando si arrabbia, tutte le volte minaccia di smettere di curare il giardino. Parole che si perdono quando l’occhio gli cade sulla tavola: un bicchiere pieno di fiori e un disegno.
In realtà uno scarabocchio, due genitori con braccia mostruosamente grandi che abbracciano due teneri marmocchi.
Sorride, proprio come quella sera…
La giornata a lavoro era stata particolarmente pesante, i bambini avevano fatto i capricci per andare a letto e Giovanni sarebbe tornato tardi. Ero sul letto a piangere.
Avevo la sensazione di non riuscire a fare abbastanza, di non arrivare dappertutto.
Casa, figli, marito, lavoro.
Avevo tutto quello che volevo, eppure sentivo un senso di inquietudine che mi divorava.
Volevo che i miei figli crescessero con una madre presente, volevo stare sempre con loro, ma i fine settimana durano poco e poi si ritorna a lavoro.
Dovevo per forza dare il massimo di me stessa in tutto quello che facevo.
Chi mi chiedeva di essere una buona padrona di casa, una moglie premurosa, una madre attenta e un’ instancabile lavoratrice?
Ho sempre creduto che il mio mito fosse la donna in carriera.
Se la mentalità di mia madre è: “la donna è il cuore della casa”, la lezione che ho imparato nel corso degli anni è stata: “La donna nasce libera! Sei libera di vivere, di fare ciò che vuoi. Non stare ferma a guardare, anche tu hai il diritto di farti una carriera, ma dovrai sbatterti almeno il doppio di un uomo.”
Da adolescente vivevo la casa solo come una limitazione alle mie innumerevoli possibilità.
Da giovane non avevo capito perché mia madre avesse rinunciato a tutto per noi, la giudicavo “all’antica”, senza ambizioni. Anzi, a volte, mi faceva addirittura tenerezza: non ha mia potuto scegliere autonomamente.
Sono stata così cieca.
La donna oggi può fare molte più cose ma non è necessariamente libera.
Io non ero libera.
Al contrario, mi sentivo risucchiata da un ritmo che, più imparavo a conoscere, sempre meno condividevo. Il guaio è che l’avevo scelto io.
Chi dice che una mamma casalinga non vale niente?
Alla donna si chiede di rispondere ad aspettative sempre più alte, di essere perfetta.
Quella che ci spacciano come libertà, non è altro che il ricalco di un modello maschile.
Se la donna vuole essere apprezzata, indipendentemente dal suo aspetto, deve essere più maschiaccio possibile.
Purtroppo questo l’ho capito solo ora, a distanza di anni, dopo averlo sperimentato sulla mia pelle. È vero, mi ero liberata dalle convinzioni di mia madre, ma, in realtà, avevo solo scelto una gabbia più grande, in nome di una battaglia non mia.
Non voglio misconoscere tutte le fatiche, le soddisfazioni e le conquiste professionali, ringrazio solo di amare l’uomo che ha portato alla luce la mia vera vocazione.
Quella sera Giovanni mi ritrovò così: sul letto, in lacrime.
Ascoltò con pazienza tutto quello che riuscivo a dire e, soprattutto, quello che tacevo.
Mi sorrise: “Amore, se così non sei serena, troveremo una soluzione.
Potrei provare a chiedere un part-time, così posso stare con i bambini mentre tu sei al lavoro. Che ne pensi?”.
Le sue parole mi aprirono il cuore.
Finalmente avevo capito.
Bastava solo essere più onesta con me stessa.
Volevo essere libera.
Libera di fare la mamma, senza dover rivestire dei ruoli, nè vecchi, nè nuovi, senza sentirmi socialmente inutile.
Voglio semplicemente essere la moglie di Giovanni e la mamma di Marco e Miriam.