Farina, zucchero, latte, uova, liquore, lievito, burro e tanto tanto miele.
Affondavo le mie mani morbide nella farina impalpabile, sulla spianatoia di legno lavorato di nonna Lucia. Mi divertivo con l’aiuto dei polpastrelli a formare un vulcano, dentro al quale, piano piano aggiungevo tutti gli altri ingredienti.
Un riverbero chiaro e accecante si insinuava tra le tende ricamate della cucina.
Era una classica giornata di metà luglio. Ma dalla finestra si poteva intuire, fra le nuvole cangianti, un temporale in arrivo.
Serena, splendente, limpida era la luce che emanavano gli occhi scuri di nonna. Le sue rughe, cicatrici di esperienze vissute, consumate e ricercate. Esperienze che, in quei pomeriggi di luglio, mi voleva insegnare e trasmettere.
Ogni sabato pomeriggio, dopo la scuola, salutavo la mamma e con passo svelto mi incamminavo verso la casa dei miei nonni materni. Camminando, mi perdevo fra le distese d’erba bruciata, che coloravano il mio adorato paese di un giallo intenso. Tutto era illuminato.
Il paesaggio attorno, ogni giorno mi salutava. Si mostrava riconoscente della compagnia che gli dedicavo giornalmente. Ricordo ancora come se fosse ora: il cinguettio dei passerotti, il fruscio del vento che scuoteva il grano appena germogliato, il suono dei frutti succosi che cadevano dagli alberi rigogliosi.
Impiegavo circa venti minuti a percorrere l’intero sentiero.
Ero libera, spensierata anche se riconosco di non aver avuto molti pensieri a quella dolce e innocente età.
Dopo una decina di minuti di camminata, ancora più arzilla e pimpante di prima, raggiungevo il grande fico nero. Luogo da me conosciuto e amato. Superato l’albero maestoso, non mancava molto ad arrivare a destinazione.
Irrompevo nella casa strepitando. Interrompevo ogni attività in corso. Era l’ora del ricamo per la nonna e della pennichella per nonno.
Due anime complementari, indivisibili, ognuna incompleta se non esistesse l’altra.
Nonna: dolce, amabile, amica, la mia seconda mamma.
Nonno invece nella sua apparente arroganza e indifferenza nascondeva una dolcezza sconfinata e una sapienza, che in poche persone avevo trovato. La sua saggezza gli apparteneva, era nata con lui.
La vita dei nonni era monotona, ripetitiva, abitudinaria e noiosa, direi. Ma loro stavano bene così.
Gli bastavo io a rallegrare le loro giornate grigie.
Ero per loro un raggio di luce, entrato dalla finestra per sbaglio, durante un giorno di pioggia. Ero per loro la panna montata sulle fragole; insomma un’eccezione alla regola. Nulla è cambiato, ieri come oggi.
Nella cucina di nonna, un profumo familiare si insinua fra i mobili antichi, le stoviglie appese e le piante grasse, tenute con cura vicino alla finestra. Sulle pareti invece si fanno spazio, centinaia di formelle di ceramica. Una diversa dall’altra. Fra queste spicca una formella alquanto particolare. Un disegno, fatto pochi anni prima da me, che ritrae, naturalmente, io e la nonna intente a cucinare una torta, o meglio un dolce. Il preferito di nonno.
Le origini di questo dolce hanno radici nella mia terra. Nella terra dei miei parenti. In questo piccolo paese dalle mille sfumature, anni prima che nascessi io, venne ideata una dolce invenzione.
Simbolo della collettività, della condivisione e del piacere di mangiare insieme, la “pignolata”, durante le sere d’inverno riusciva a riscaldare le case fredde e i cuori rigidi delle persone.
Ai miei occhi vivaci di bambina, appariva come una grande montagna di palline marroni, tutte appiccicose, da dividere una a una e da degustare immaginando che siano piccole pigne. Ero rimasta incantata da questo dolce, alquanto particolare e bizzarro per la forma.
Le donne più anziane del paese , qualche giorno prima di Natale, si radunavano nella casa della nonnina più anziana, e coinvolgendo le proprie figlie, iniziavano la lavorazione lunga e laboriosa di questa delizia. La più vecchia fra le signore presenti, lavorava l’impasto di circa sei chili con forza e maestria. Le altre donne invece preparavano una grande pentola piena di olio dove friggere poi le “pignette”. Le bambine invece predisponevo dei vassoi con corallini di zucchero, mandorle, nocciole tritate e tanto altro. Una volta pronto l’impasto, la donna, lo divideva in più parti, creava con le mani lunghe striscioline e poi tagliava con un coltellino piccoli pezzi di pasta. Pronti tutti i cubetti, venivano fritti, asciugati e poi amalgamati insieme con tantissimo miele. Tutto si impestava di miele appiccicoso, difficile da pulire. Ma ne valeva la pena, per poi mangiare quella delizia.
Si lasciava poi riposare a forma di montagna, simile ai profit eroles, vicino a una finestra.
La sera della vigilia, dopo la Grazia suonata dalle campane malridotte della chiesa, ci si sedeva al tavolo verde, e come avvoltoi, ognuno con le mani prendeva un pezzettino di pignolata, e si continuava così fino a tardi, andando a dormire dopo con le mani tutte appiccicaticce.
Dolce tradizione. Nella mia famiglia si ama mantenere le tradizioni, soprattutto questa. Qualche giorno prima di Natale, dopo scuola vado da nonna e con lei inizio a preparare questo dolce. Appena arrivata: mi lavo le mani, infilo il mio grembiulino da cucina ricamato ed sono pronta per iniziare e scatenare la terza guerra mondiale in cucina. Non aiuto mai a pulire. Non mi piace, preferisco avere le mani in pasta e cucinare.
Nonno aiuta, in qualche modo. Va in cantina a prendere la tavola di legno per impastare. Ogni volta, con volto teatrale, finge di fare una fatica immane, come se portasse un carico da cento litri di olio. E poi, dopo averla sistemata sulla tavola, si allontana per ritirarsi nel suo silenzio contemplativo, perdendosi fra i mille spazi neri del cruciverba. Con voce, piano piano sempre più sfuocata dice: “ Eh menomale che c’è nonno!”
È vero. È una fortuna che a questa veneranda età sia ancora in forze e sappia ridere e scherzare senza sforzo.
Nonna dall’alto della sua esperienza culinaria e domestica, ribatte: “ Fidati Carlo che anche io o tua nipote li sappiamo sollevare settecento grammi. Non esaltarti troppo.”
Nonno a quel punto, dopo che essere stato deriso amorevolmente dalla moglie, con sguardo di sfida ma anche rassegnato, sprofonda nella sua poltrona.
Mentre nonno si è auto-esiliato nella poltrona, insieme alle sue parole crociate. Dal pavimento della cucina si può capire che sono stata là quel giorno.
Farina ovunque, zucchero sparso sulla tavola e dentro le pantofole di nonna, gocce di latte sui vestiti. Ho scatenato l’inferno, ma nonna poi, dopo aver finito di impastare, con estrema pazienza, riporta all’ordine quell’adorato posto, ridonandogli le fattezze di paradiso che aveva prima che venissi io.
Più tardi, con le mie “manine da fata”, come le chiama nonna, inizio a fare lunghe striscioline che poi taglio a pezzetti. Dopo avere cosparso per tutta la tavola pezzi di pasta, nonna, delicatamente lì frigge nell’olio bollente, e io la guardo da lontano, per paura dello schioppettio dell’olio. Quando le palline si sono asciugate dall’unto dell’olio, li metto tutte in una grande ciotola e con tanto tanto miele li amalgamo e diventavano una massa appiccicosa e invitante.
La vera preparazione del dolce è finita. Ma ora, arriva il mio momento, quello tanto aspettato. Con corallini colorati, canditi e tante altre leccornie decoro la dolce montagna che alla fine assomiglia a un quadro di Van Gogh.
La notte di Natale, dunque con la mia famiglia aspettiamo la Grazia per scambiarci gli auguri e per mangiare finalmente, la delizia preparata con nonna qualche giorno prima. Aspettiamo, aspettiamo ma non si sentono mai le campane suonare. Al primo rintocco, mi alzo subito dal divano e vado a prendere in cucina il dolce. Tutti mi guardavo con occhi meravigliati, da bambino, e io con altrettanta meraviglia mostro la mia opera d’arte. Nonno prima di tutti assaggia una pallina e con voce profonda brevetta la dolce creazione: “Mangiate, mangiate che è buono!”.
Quelle mani tutte appiccicaticce…
Bellissimo… Ricordo
…toccante..
Bellissimo racconto…
“Mangiate, mangiate che è buono!” il nonno è un mito ! molto carino e ben scritto…voglio pure io assaggiare il dolce !!! 🙂
Un racconto che scandisce le usanze,i costumi le tradizioni nonché la composizione della famiglia e i legami che legano la stessa .
Denso e pregnante racconto che accomuna e rivela il vero valore della famiglia e così come diceva il Primo Famoso Psicologo: l’Amore nasce da un bisogno di cibo soddisfatto!
Complimenti. Daniele