5. Io sono il Signore Dio tuo

Ho per la prima volta capito quanto il silenzio possa essere un peso, infinito, un cancro che dall’interno divora l’Uomo: ma anche quanto possa esser pace.

E se è pace, qual pace, oh!, qual pace è. Mi fosse dato di scambiare le ore future e pesanti della mia vita in cambio di una sola notte eternamente silenziosa, e di seppellire per sempre il ricordo dei giorni passati e delle parole passate, sprecate, inutili!

Oggi ho visitato un bambino nel mio studio: faceva caldo, ma il primo vento estivo spettinava i cespugli e i rami esili degli alberi fioriti da poco. Non ho avuto il cuore di dire alla madre che morirà il suo bambino; già un altro porta gravida in grembo, e sul nascituro soffocherà il ricordo del primo e su di lui, innocente, sulle sue mani, sui suoi occhi, sul suo volto ricadrà il sangue del fratello come un denso fiume rosso. E del suo stesso umore si macchieranno le mani mie!

Eppure non avrei sopportato di veder affogare, in un pieno oceano di lacrime salate, i grandi occhi di lei, verdi e vivi che sembravano di vetro; ma gli occhi freddi di suo figlio invece, di quell’appiccicoso tumore al miele di sua madre, quell’occhiazzurro dove si rivedevano i mille accesi colori del mare e delle onde che si arricciano la mattina sotto la sabbia con il loro musicale e ritmato sciabordio, già vedevo spegnersi e aggrapparsi all’ultima opalescente sfumatura della luce del giorno, e così le sue labbra, grigie ed esangui, smorte, che la lingua esausta, nonostante fossse perennemente muta, non sopportava di inumidire, già vedevo per sempre serrarsi. la cerea e cadaverica maschera della morte tronfia deformava il suo viso giovane.

Oh fiore presto appassito, oh biondo stelo di giovenezza per l’eternità perduta!

La sua faccia aveva un colorito giallo-anemico, e continuava a non parlare, Dio Santo!, sentivo i suoi polmoni e il suo torace piccolo piccolo contrarsi in uno sforzo impossibile e dilatarsi ad abbracciare quanta più aria possibile per emettere un suono, almeno uno: nulla. Respirava solo più affannosamente, e la madre lo coccolava con zuccherini sguardi da madre, e forse in cuore sapeva, oh certamente in cuore sapeva, ed io rassicuravo folle e meschino quel volto stanco, magro ed emaciato e spettinavo i capelli lisci e neri del bimbo, capelli neri come la fuliggine nel più profondo dell’Inferno. E il ragazzo malfermo si è poi alzato sulle gambe storte ed è poi andato alla scrivania della segretaria e su mio invito, nonostante la disapprovazione dimessa e dolce di sua mamma, ha affondato la manina tremante e bianca di giglio nella profonda, troppo profonda per lui, vasca dei dolciumi. Ma nessuna caramella lo soddisfece.

Anche la madre a sua volta si alzò, con il ventre gonfio e opprimente, io mi drizzai sulla poltrona: la bocca era serrata e impastata di saliva, scossi desolato la testa con falsa comprensione, e la mano fredda di lei scivolò lenta dalla mia e rassegnata chinò, chiudendo gli occhi, la testa che le ronzava piretica come una luce e al neon e sussurrò mostrando rapida una doppia fila di denti d’avorio:

«Addio, dottor Abelmann!»

Uscendo non ebbe nemmeno la forza di richiudere la porta, pesante, troppo pesante per lei, che già appresso si trascinava il vecchio e il nuovo fardello.

Sprofondai nella poltrona in cuoio rosso e accesi una sigaretta. Il posacenere era lontano e la cenere scendeva inesorabile sulla moquette grigia. Guardai fuori dalla finestra il caldo, la vita, il gioire dei ragazzini:si stava però facendo brutto…

Oh maggio, crudele tra i crudeli, che fai risorgere verdi speranze destinate a morire…

E chiusi gli occhi e sognai. E chiusi gli occhi verso quello stesso sole e vidi mischiarsi il nero e l’arancione, e uno sfondo rosso rosso profilato di gialle vene, colori onirici premuti contro le palpebre bruciate dalla luce e dal calore materno di quella luce. Oh se sognai!, sognai quel bambino

fantasticare solo e scalzo sulla spiaggia, là dove la schiuma delle acque salmastre lascia una traccia bianca, spumosa ed effimera, e sognai sua madre fissare con vacuo sguardo la sua seggiola vuota e poi piangere e strapparsi i capelli e disperata bagnare, inginocchiata nella pioggia, la terra porosa, nera, umida gemendo la perdita dell’inrinverdibile corpo di suo figlio; e sognai, ancora e ancora, la piccola bara bianca di lui e le sue ossa diafane e divorate dai vermi e il mio camice bianco e poi il suo volto, piccino e morbido nei lineamenti, scavato e svuotato nelle orbite.

E sognai, senza addormentarmi, me e Dio e Dio e me e forse fu la stessa cosa e forse no, ma è pur vero che anche lui tacque e nascose al suo popolo, il suo popolo eletto, la sua terribile volontà.

La sua terribile verità.

 E forse è proprio quello che feci io, e forse così diversi non siamo, lui ed io, io che tante volte bestemmiai un nome che pure ignoravo di conoscere.

E mi chiesi allora scioccamente, con la stessa ingenuità che solo quello stesso bambino avrebbe potuto avere, se sua madre avesse davvero già pianto, e se poi, sola nell’oscura notte della sua camera da letto, avrebbe pregato; e, se sì, se avrebbe pregato me o Dio.

E capii in fondo che è più facile essere Dio, che forse anche lui tutto sa della morte e gran poco della vita: e che a lui d’altronde si chiede solo di ascoltare, non di parlare. Non dover dare notizie terribili che possano spezzare la bellezza d’un attimo di vita. Non dover dire: “Uomo, morirai”.

Capii di non avere il lungo indice di Dio.

Ma capii anche di aver forse regalato vita, poca vita, che è pur sempre vita, anche se un giorno, un’ora, un istante. E, proprio non parlando, di aver donato speranza: e vivere ancora un giorno senza sentire avvicinarsi l’odore della morte, è vivere!, ed è forse un dono. Un grande dono. Il più grande dei doni.

O forse ciò mi aveva solo dato onnipotenza, e mi aveva fatto sentire importante nel mio non contar niente?

Aprii gli occhi e guardai fuori dalla finestra: ora pioveva e sbuffava e tuonava e urlava il cielo, e già si era alzato un alito di vento. E scendeva, catartica e inattesa, la pioggia.

Pioveva, ed era temporale.

Pioveva e un’automobile rombò via il mio sogno slittando sull’asfalto lucido e bagnato.

Pioveva e l’orologio a muro mandava un ticchettio sommesso e sfasato rispetto allo stillicidio d’acqua del davanzale.

Pioveva a scrosci, e crollavano cariche di pioggia le nuvole sotto il loro stesso peso.

Pioveva, e l’acqua rivolava in strada dalle grondaie.

Pioveva, e tra gli alberi soffiava, sospirando e struggendosi, solo un’usata e semplice tramontana.

Pioveva, ed io tornai a casa, bagnandomi nella pioggia.

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