59/2016. Sedie scomode

Vi ho immaginati così, come in fototessere sfocate lasciate ad imbrunire in un cassetto semivuoto.

Siete seduti sulle stesse sedie color vinaccio. Durante l’attesa, abbracciate i ricordi, confabulate parole sorde in bocca, vi preparate a mostrarvi per come siete. Semplici, carismatici, quieti e misurati. Queste sono le parole di conforto e incoraggiamento dei vostri amici, supervisori.
Tu V, coperto dal tuo cappuccio di cotone, nascondi i pensieri e i tuoi occhi azzurri al mondo. Pensieri che immaginano un futuro e occhi che cercano di dimenticare un passato amaro. Indossi due felpe per non avere freddo, una sull’altra; le maniche della prima  esplodono dai polsi e accolgono il freddo di febbraio. Cappellino stretto sulla testa, sotto il cappuccio, per nasconderti ancora meglio.
Crei un involucro impermeabile, grazie al quale nessuno può capirti davvero, nessuno.
Incroci i piedi sotto la sedia, nelle tue scarpe larghe. Fissi un punto nella stanza  di fronte a te. Quadri anonimi, colori piatti, pavimento anni ‘50, mobili basici, per nulla ricercati.
Ti perdi in un’apatia di sguardi e movimenti. Pensi al tuo passato nella città Natale, Cosenza, cuore della Calabria, bellezza meridionale italiana. Ai giorni di festa di San Giuseppe, alle luminarie di Via Mazzini, alle serate sul Lungo Fiume, all’acqua salata sporca di Fuscaldo, al caldo opprimente di giugno e a quello ventilato di settembre, al quartiere di Via Popilia, in cui si crede più nella quotidiana ingiustizia che nella tanto ostentata giustizia. Ricordi quella terra, dal sapore vivo, tanto amata quanto abbandonata dal mondo, terra di contraddizioni e male parole. Ripensi alla risalita, alla rinascita: niente placenta a proteggerti, abbracci materni, baci paterni, sei solo tu, sei stato e sei ancora solo tu.
Inizi a viaggiare, ripercorri lo stivale come falso turista, in cerca di un tetto, non di una spiaggia o una piazza da occupare. Napoli, Roma, Firenze, Bologna, Milano e infine Bergamo.
Sei approdato qui, nello stesso modo in cui sei arrivato negli altri posti, parole buone e commenti saggi, di vecchi amici.
Vivi nell’ombra di un ragazzo calabrese di periferia, senza sogni pretenziosi o desideri irrealizzabili. Un lavoro, una casa e magari una famiglia un giorno.
Niente di più, se non una vita normale, da normale italiano.

Nella sedia accanto a te V, in quella stanza senza nome, siedi anche tu H. Sei seduto comodo, ti guardi intorno, capisci la nostra lingua, non tutte le parole forse. La tua lingua madre non è l’italiano, ti appartiene l’idioma francese, la erre moscia, la pronuncia delicata e ovattata, caratteristiche che stonano sulla tua pelle scura, i tuoi occhi bruni e i capelli mori. Indossi con semplicità un giubbino in pelle, dei jeans e delle scarpe da ginnastica. Sgrani gli occhi quando non capisci qualche termine mentre aspetti di essere giudicato da un uomo più chiaro di te. Stringi con le mani i tuoi documenti, passaporto e curriculum, tutto ciò che parla e non parla di te. Dice poco.

Non dice come quei documenti siano arrivati nelle tue mani, i sacrifici fatti per comprare quelle carte, le mattinate trascorse in ambasciata, in comune; i giorni, i mesi, gli anni ad aspettare di essere riconosciuto come uomo, non come pratica da sbrigare, anno di arrivo, livello di alfabetizzazione.

Aspetti, continui ad aspettare come hai fatto in 26 anni, aspettare e sperare in un giorno migliore in cui non sia più necessario nascondersi dietro documenti falsi, dentro barconi stipati di gente, dentro case non dichiarate.
Turchia, Francia, Svizzera, Grecia e Italia. Lingue diverse, colori differenti, usi e costumi da conoscere. Non ti sei mai arreso e mai lo farai, forse, finché vivrai un vita normale, come un normale ragazzo marocchino.

Vi chiamano, dovete consegnare le vostre identità, le vostre storie a quello sconosciuto che vi giudicherà. Vi valuterà in base ai vostri dati anagrafici, alle vostre esperienze lavorative, alle vostre attitudini non in base alle lacrime versate, ai sorrisi rubati, ai baci sentiti, alle parole desiderate, ai suoni mai dimenticati, ai vostri cuori rotti in cocci non ricomponibili.
Non vi giudicherà in base a come siete, ma in base a cosa sapete fare.
Non siete più uomini, ma numeri, lettere su fogli bianchi.

Foto, su carte d’identità anonime.

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