60/2016. Ti vedo un giorno dopo l’altro

Ogni giorno rivedo la tua immagine. L’ho impressa nel cuore e nella mente la tua fotografia, caro Tenco.  Sei seduto, con le braccia poggiate sulle ginocchia, l’orologio da polso, la testa inclinata che guarda verso il basso, lo sguardo perso nel vuoto, il tuo solito sguardo, quello che preferisco a tutti gli sguardi del mondo, quello che ti appartiene, perché racconta di te.
Mi piace pensarti seduto sul bordo di una strada, forse una piccola via di Cassine, il paese della tua anima. Ne porti appresso le sue vie, gli alberi, la piazza del mercato e quel campanile immerso nel verde e che sembra aprire una voragine tra la nebbia troppo fitta degli inverni piemontesi.
Era il 21 Marzo di un lontano 1938 quando nascesti, un bel giorno di primavera. A Cassine, probabilmente, non faceva ancora caldo, i prati stavano quasi tornando in fiore, il vento era ancora fresco ma l’atmosfera primaverile si poteva percepire respirando profondamente. Quando i tuoi occhi videro per la prima volta il mondo, il tuo sguardo era già nitido, così pulito da non aver bisogno di spiegazioni. Eri già troppo audace. Vedevi con precisione le margherite, le siepi, le scarpe vecchie e consumate delle signore in chiesa e le mani ingiallite dei contadini che lavoravano una terra che ti aveva fatto nascere, ma già così stanca, una terra che, dopo la tua morte, avrebbe pianto in silenzio.
Se tu fossi qui, mio adorato Tenco,  mi rimprovereresti della mia felicità, vedresti in me qualcosa che si cela oltre il sorriso, qualcosa di buio e opaco che le tue sopracciglia aggrottate e la sigaretta tra i denti raccontavano bene. Mi diresti a gran voce, senza pretese, di far germogliare il seme triste della mia anima, di farlo emergere, perché sempre si deve andare oltre, oltre la felicità per scoprire il buio. Perché nel buio si nascondono le paure, si camuffa il mal di vivere, sensazioni da cantare, come il dissenso o la denuncia. Io ti direi, a quel punto, che non sono così audace, che sarebbe una battaglia persa, che sono così fragile da non poterti prendere da esempio.
Se fossi qui, però, vedresti anche questa Italia. Ti domanderesti dove si siano nascosti i prati, le montagne, i giradischi, i vinili e le mele sugli alberi, dove siano i ragazzi che facevano la rivoluzione, i partigiani e i proletari, ormai troppo stanchi persino di scioperare.
Mi domando, caro Tenco, se saresti felice di questo nostro bel paese, così prostrato, così succube e diviso, dove i campi e la terra rinnegano le origini, il grano viene tagliato troppo presto e l’urlo dei prigionieri è troppo lontano da poterlo sentire.
Mi domando cosa faresti tu. Mi servirebbe una tua canzone ora, vorrei sentirti cantare, con le maniche di camicia ripiegate: “un giorno dopo l’altro il tempo se ne va, le strade sempre uguali, le stesse case.”
Provo a pensare ad altro, ma tu continui a essere qui. Ti rivedo al bar, con la sigaretta in bocca, il giornale e il nodo della cravatta fatto male. Sei nell’immagine che ti ritrae a Sanremo, con l’ansia di pronunciare sul palco le parole scomode delle tue canzoni, o forse dovrei dire poesie perché le tue note, i tuoi accordi, le tue idee, quelle che non sono poi così nere, io le sento ancora, e le sento forti.
Ti rivedo passeggiare sulla spiaggia di Genova o tra la vigna della tua collina, tra la gente che ti amava e quella che ti odiava, a guidare e poi ancora a respirare intensamente l’aria, per te malsana, di questo nostro paese, che ti era così scomodo, caro Tenco, ti stava così stretto.
Lo so, avresti voluto scappare. Come me respiravi lo smog insalubre dell’indifferenza e dell’ipocrisia di coloro che sapevano fare ma non potevano dire, sognare o accarezzare l’erba. E ora sei solo il vento che mi può salvare, che mi può accogliere tra le tue braccia per vedere cosa si prova a vedere il mondo con i tuoi stessi occhi, che erano così profondi, che scavavano nelle ferite, che tradivano la consuetudine e l’apparenza del vivere felici. Dovresti insegnare, Tenco, che la felicità non è quella che si vede, ma quella che si scopre, che si ha il coraggio di indossare, nonostante a volte sia piccola e stretta. Ma ci si deve accontentare. Mi piace pensare che questo piacere tu l’abbia scoperto poco prima di morire, che avessi in bocca il suo sapore prima di chiudere gli occhi per sempre.

Era il 1967, le piazze iniziavano a riempirsi di bandiere rosse e mancava solo un anno a quella che sarebbe stata una delle più grandi rivoluzioni fatte in nome della libertà. Le strade erano piene di vita, nonostante fosse un gennaio freddo. I giornali e la televisione raccontavano il “Festival della Canzone Italiana”, edizione in cui tu cantasti “ciao amore, ciao”, riempiendo di speranza i cuori sediziosi, di rabbia le menti di chi sosteneva non fossi degno di cantare, figuriamoci di parlare o vincere.
Così, nella camera numero 219, di un albergo da cui si vedeva il mare, ti uccidesti con un colpo di pistola e il tuo sangue invase la moquette, poi Sanremo, infine le strade e le case, le piazze, dove chi tace acconsente sempre e abbassa ancora una volta la testa, perché solo tu hai preferito morire piuttosto che subire, “soffocando il singhiozzo di quelle tue labbra smorte, che all’odio e all’ignoranza preferirono la morte”, dirà di te l’amico De Andrè.
Vorrei farti tante domande, vorrei che mi insegnassi a fare i conti con le ingiustizie, a resistere pur stando sempre dalla parte di chi perde, ad avere ancora fiducia, anche nella morte, senza sentirmi così terribilmente sola di fronte al mondo o di fronte a questa gente, che non è cambiata, che ti condannerebbe ancora, riaprendo le stesse ferite, accusandoti delle stesse paure. O degli stessi sogni. E poi, vorrei che mi insegnassi ad amare, a vivere un amore libero, senza condizionamenti, dove i sogni hanno le ali e volano leggeri per i cieli di questo paese sconfitto, che respira ancora. Che, incessantemente resiste, come fecero i partigiani, che ora sognano gli inni di vittoria, nelle case di riposo. Ti rivedo, caro Tenco, provare a essere come tutti gli altri, accontentarti della superficialità mediocre e non riuscirci. E riprovarci. Riprovarci. Riprovarci ancora. Fino a quando le gambe non cedettero, fino a morire. Ti rivedo che attraversi Via Dardanelli a Genova, sopra il lungomare, col tuo passo calmo, quasi contraddittorio nei confronti di chi aveva troppo da fare per sentirti cantare, fermarsi e ritrovare nelle barche oscillanti del porto la tua voce, così profonda, tanto da spezzare i cuori, mettere a nudo le coscienze dei benpensanti. Con la tua coscienza pulita. E audace. E sognatrice. Le vie sono rimaste vuote, della tua voce stanca solo un’eco, che tuttavia risuona risvegliando i progetti dei sognatori stanchi.
Ti rivedo, caro Tenco, che non hai vergogna di cantare e di soffrire.
Ti vedo.
Sei nelle città, nei quartieri, nelle vie, con le tue paure in mano e la chitarra, e una voce:” Ciao amore, ciao amore, ciao amore ciao.

17 thoughts on “60/2016. Ti vedo un giorno dopo l’altro

  1. Penso sia un racconto pieno di emozioni e sentimenti, e che esprima a pieno il mondo di oggi messo a confronto con quello di ieri. Veramente bello.

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