7. Solo perché sono muta non parlo?

“Ciaoooo, tesoro! Coooome staiii? Oh, mi manchi anche tuuuu! T.v.b, t.v.b! Siiiiì! BFF!” La ragazza di fronte a me sull’autobus mi sta strapazzando l’udito, ma non sembra accorgersene. È troppo impegnata a parlare al cellulare. Più parla, più alza la voce, più dice sciocchezze: è un circolo vizioso. Ed infine il colpo mortale: “Ma se avrebbi tempo, sarei da te.”

Orrore!!!

Apro la bocca per parlare, ma la richiudo subito, come un pesce. Fa male sentire tutte queste persone che stuprano la lingua italiana impunemente. Hanno a disposizione la voce e i suoni delle parole e si esprimono così. Io non posso parlare, invece, e devo subire questi obbrobri. Le lancio un’occhiataccia per farle capire che sta parlando scorrettamente. Mi ignora bellamente e continua a starnazzare senza curarsi di nulla. Va be’, ci sono abituata. Mi chiamo Alba, ho sedici anni e da quando sono nata non ho mai detto una parola: ho una malformazione alle corde vocali. La mia è una vita-non-vita, perché ho i miei hobby e tutto, ma non ho amici. A scuola sono completamente ignorata, perché “nessuno ha lo sbatti di cercare di parlarti. E perché imparare il linguaggio dei segni? Non abbiamo voglia!” Questo è il pensiero dei miei gentilissimi compagni. Gli unici contatti che ho ce li ho con altri muti che sento tramite un gruppo di sostegno su Internet, ma non li ho mai incontrati. Vorrei avere un amico con cui stare a scuola o in giro il pomeriggio. La parola, però, mi debilita, perché non la possiedo. Le parole che mi separano da quanto desidero, le parole maledette, le parole ambite. Scendo alla fermata, lasciando la ragazza urlante a ululare. Oggi ho un’interrogazione. Con interprete. Viene appositamente per me qualche giorno al mese una donna che conosce il linguaggio dei segni. Tanto per accentare ulteriormente la mia diversità. Non so cosa darei per poter pronunciare: “Il Medioevo inizia con la caduta dell’Impero d’Occidente”, invece che esprimerlo con dei segni sconosciuti praticamente a tutti.

Sono accolta a scuola da centinaia di discorsi fra ragazzi e ragazze:

“Come va?”, “Ti piacciono le mie scarpe?”, “Interroga in scienze?”, “Si va in centro sabato?”, “Ho conosciuto un tipo strafigo!” e risate, risate, risate. Con il cuore che mi si stringe progressivamente, entro in classe. Altre chiacchiere non rivolte a me. L’inizio della lezione è quasi un sollievo. La campanella attenua le voci dei miei compagni. La professoressa arriva subito. Strano. Di solito ci impiega almeno cinque minuti ad arrivare qui.

“Ragazzi. Abbiamo un nuovo compagno.” Annuncia. In effetti c’è un nuovo banco.

“Si chiama Simone ed è un non-vedente.” Continua.

Tutti si girano verso di me. Certo. La muta e il cieco: la classe dei fenomeni da baraccone.

“Sono certa che si troverà benissimo con voi.” Termina. Che divertente! Peccato che lo pensi davvero.

La porte si apre ed appare Simone. Ha dei sottili occhiali scuri che nascondono gli occhi con discrezione.

“Hey” ci saluta “Potete chiamarmi Ray Charles.”

Pochi capiscono la battuta. Io sono una dei pochi.

La mia interprete accompagna Simone fino al mio banco e l’aiuta a sedersi.

Simone tasta l’aria e tocca il mio braccio.

“Tu chi sei?” mi sorride.

Gli rispondo a gesti e l’interprete dice: “Mi chiamo Alba. Sono muta. Sto facendo parlando tramite l’interprete. Io faccio i segni, lei parla.”

“Sembra complicato. Comunque io sono Simone.” Tende la mano che io gli stringo.

“Che mano piccola che hai.” Commenta.

La sposto dalle sue dita e ribatto: “No! Sono le tue mani ad essere grosse.”

Simone ride: “Bella risposta!” si rivolge all’interprete “Lei rimane qui, vero?”

“No, sono qui perché Alba deve essere interrogata in storia. Appena avrà finito, dovrò andarmene.”

“Che peccato. Alba sembra simpatica.”

Uffa! Una volta tanto che qualcuno vuole parlare con me. Che nervi. Poi ho un’idea.

“Conosci il codice morse?” chiedo con le dita.

“S’, ma perché…?” E poi capisce.

In quel momento la professoressa mi chiama alla cattedra e sono costretta a lasciare Simone da solo.

È un’interrogazione lunghissima, ma non perché sia lunga di per sé, ma perché voglio correre al posto. Per la prima volta nella mia vita posso in un certo senso chiacchierare con qualcuno. Appena mi si annuncia il voto, schizzo al mio banco.

“Direi che è andata bene.” Mi dice Simone.

Afferro una matita e la picchietto sul banco: “Ho preso nove. Direi più che bene.”

“Nove? Che secchiona.”

“Mi scusi se non passo il mio tempo a suonare, signor Ray Charles.”

E scoppia a ridere.

Tutti lo guardano perplessi e incuriositi. La muta ha detto qualcosa di spiritoso? Ha detto?! Certo, non può avergli scritto niente e non può essersi espressa con il linguaggio dei segni. Ma allora…?

Finita l’ora, Mara si avvicina a Simone: “Scusa, ma come fa Alba a parlarti?”

“Codice morse.!

Un po’ serio, un po’ per gioco, Simone le spiega in che cosa consiste. E finalmente dopo tanto, tantissimo tempo, una mia compagna capisce che cosa significa non avere un modo normale per comunicare, che cosa significa non potere aprire la bocca per emettere suoni e che non sono diversa come essere umano.

Si rivolge a me: “Alba, ti andrebbe di insegnarmi il codice morse o il linguaggio dei segni?”

Annuisco.

E finalmente capisco che non potere parlare con le labbra non mi impedisce di parlare in ogni caso.

Ah, Mara ha imparato il linguaggio dei segni e lo sta insegnando alla classe. Non sono più sola.

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