FC/2015. Olio sull’asfalto

Sono nato nella terra dei folti campi che si estendono fino a quando la vista non si sfuoca; dove il profumo della salsedine si crostifica sulla pelle; dove il sole arde sulla terra ocra e fumante.

Sono nato dove nascemmo tutti, sullo stesso fango, dalle stesse macerie, circondato dagli stessi oceani: eppure ero diverso. Papà ripeteva spesso che quelli della nostra generazione non sono fatti per la terra e per il sudore; diceva che i vicoli dei paesi limitrofi sarebbero solo stati delle gabbie per noi: per lui dovevamo viaggiare, andare lontano dove per tutti c’è qualcosa, andare all’asfalto.

“Cosa è l’asfalto papà?”

Ero solito chiedere io, con quella voce stonata che capita crescendo.

“L’asfalto dici? – ripeteva lui ed io annuivo sempre con entusiasmo – chiedi a tua madre, lei sa tutto.”

Allora io volgevo il mio sguardo verso l’alto, ricercavo coi miei gli occhi suoi, luminosi e pieni di vita. Mamma mi irradiava del suo amore, mi scaldava da dentro: sentivo il sangue ribollirmi e arrossivo a sentire il suo tocco caloroso sulla pelle. Mamma non si fermava mai, non smetteva mai di brillare con quella vivacità e papà mi diceva spesso che era grazie a lei se io ero lì. Lei non veniva spesso e, quando veniva, non parlava quasi mai, no mamma non parlava, non si muoveva troppo, non annuiva, ma non ce n’era bisogno perché io la sua voce la sentivo comunque; la sentivo rimbombare dentro di me come se fossi una camera acustica: era dolce come il miele e al contempo acida come il limone, era matura e forte, ferma e autoritaria.

Era lei.

Quando le chiedevo dell’asfalto, sentivo la sua voce incrinarsi, spezzarsi sotto il peso di quella parola, le sensazioni che provavo si facevano bollenti e poi arrivavano le lacrime. Al primo singhiozzo io scappavo sotto le braccia di papà, mi nascondevo e tremavo e poi i tuoni e poi i lampi e poi solo il buio della notte.

La mattina mi svegliavo con un sapore acre in bocca ed un avvertimento impresso sulla pelle: stai lontano dall’asfalto.

E allora tentai di scappare il più possibile dalla raccolta ma novembre arrivò per tutti ed io non ne fui escluso. Simone, il fattore della tenuta in cui abitavamo, giunse da papà sorridente, mi tastò con le sue mani unte e vecchie, mi guardò da cima a fondo e poi decise: un colpo secco e io fui strappato per sempre dal grembo natio. Fui abbastanza sicuro che mio padre non pianse, ma non gliene feci una colpa: non riuscì mai a dirmi il numero dei figli che l’industria del lavoro, la macchina del mercato gli aveva strappato. Mai fu capace di dirmi con sincerità cosa l’asfalto significasse. Fui io quello che pianse; piansi a lungo come non avevo mai fatto e smisi solo il giorno in cui, alzando il capo, come ero solito fare quando ero in difficoltà, rividi mamma, la rividi luminosa a darmi la forza che avevo timore di provare, a darmi il coraggio che mi mancava.

Nel lungo viaggio che ci aspettava conobbi meglio i miei compagni: avevamo quasi tutti la stessa età, qualcuno era più giovane, ma già volenteroso di buttarsi nella mischia, e poi c’era un vecchio. Se ne stava in disparte, lo sguardo riposto su un mondo che vedeva solo lui, la carne putrida e marcia gli colava da tutti i lati e non osava mai aprir bocca: le sue parole sarebbero state solo sentenze funebri, tanta la gente che aveva perso, tanti gli amici, i parenti. Del vecchio mi rimase solo l’immagine discostata nell’ombra del camion che veloce correva, correva verso l’asfalto.

Dal furgone buio fummo trasferiti ad uno più piccolo e scomodo. Stretti, stretti, ballavamo al ritmo delle curve e delle buche che il terreno ghiaioso aveva. Gomitate, calci, parole sussurrate eravamo tanto stretti da aver perso un qualsiasi intimo pensiero, ma a nostro modo eravamo anche gli individui più soli del mondo: ognuno nel suo silenzio pensava alla casa abbandonata o al destino da scoprire e benché tutti avessimo lo stesso passato e lo stesso futuro, ognuno ostentava a sostenere che il presente era individuale, era quasi speciale, era diverso. Tuttavia in quella topaia non fu l’amicizia a legarci, non fu il tempo passato insieme, ma qualcosa di più infimo: la necessità. Fu ad una curva più stretta della altre che una cassetta volò giù dal camion; morirono a centinaia, nessuno li conosceva bene, ma un improvviso senso comune si districò tra di noi, spolverò i finti legami con cui ci eravamo ricoperti e ci lasciò solo con la cruda realtà: l’asfalto non ci avrebbe esclusi perché più forti o più deboli o più giovani o maturi, ci avrebbe divorato, ci avrebbe sbranato. Improvvisamente dalla morte il futuro si dispanò davanti a noi, dannate anime: cancelli, strade a fondo chiuso, gabbie ed il cielo limpido oscurato dal legno e dal cemento. La morte ci rese vulnerabili, ci donò l’empatia; la pietà ci unì svelandoci per quello che eravamo: esseri che necessitavano sicurezza e stabilità. E la ottenemmo, quando il furgone smise di ballare il suo ritmo sconnesso: tornò la calma lineare solo quando il camion cominciò a correre, a correre sull’asfalto.

Poco il tempo per elaborare il lutto che già il furgone si era fermato.

“Cosa succede?”

Bisbigliò qualcuno accanto a me. Scossi la testa.

Un brivido mi percorse la schiena, mi schiacciò contro il legno della cassetta dentro cui stavamo ed il respiro mi si fece breve, poi corto, poi mancò del tutto.

“Il cielo! Dove è il cielo?!”

I compagni indicavano l’alto ma io non vedevo, muovevo le pupille a scandagliare le nuvole e la nebbia;

‘Dove sei? Dove sei?’ Chiedevo a me stesso concitato, una febbrile sensazione di abbandono mi pervase da cima a fondo: eccomi lì, dopo il viaggio della mia vita, a tremare ancora come un poppante reclamante il grembo materno, a soffrire la solitudine del distacco.

“Dove sei, mamma? Dove i tuoi raggi caldi? Mamma! Mamma! Ho bisogno di te!”

Ma lei non uscì dalla grigia coltre. Forse era offesa, quante volte mi aveva avvertito di fuggire dall’asfalto?

Troppe.

Un sospiro e svenni.

Ripresi i sensi in una stanza umida e fredda: ero in una nuova cassetta, con molta più gente e molti più sconosciuti. Rinvenni prendendomi tutto il tempo necessario, ma per quanto tentassi di sbattere le palpebre o aprire gli occhi, il paesaggio rimaneva compresso in una folta nebbia.

Alcuni vicini dormivano, altri semplicemente pensavano; c’era uno strano senso di pacatezza che non capivo. Poi un sibilo cominciò ad arrivare dal fondo: piano, piano il mio orecchio si abituò anche ai rumori e fu un’esplosione contrastante di gusti aciduli e metallici che dalle orecchie arrivavano allo stomaco e dallo stomaco alla bocca.

Un pianto sommesso alla destra, un vagito solitario da sinistra, dietro i muri invalicabili urla scomposte di dolore e di terrore. Una pulsione sconosciuta mi spinse a pancia a terra, le mani pressate sulle orecchie non diminuivano la tonalità: era dentro di me, il rumore, il disprezzo, l’odio, l’affranto, il grido della liberazione, l’urlo della disperazione, tutto era in me, tutto ero io.

Una pulsione. Un conato. E alla cacofonia circostante si aggiunse il mio terrore, la mia paura.

Qualcuno fermi il terrore, qualcuno fermi il mondo.

“Calmati ragazzo, tra poco sarà tutto finito.”

Un vecchio, consumato dalle stagioni, si mosse accanto a me.

“Ma io… Io non voglio…Cosa…Cosa c’è di là?”

Lui mi guardò bonariamente.

“E cosa vuoi che ci sia di là se non l’aldilà?”

Inorridii fin dentro le ossa, persi il colorito verdognolo che mi caratterizava. Sentii la spossatezza, sentii il peso che tutti volevano porre su di me, ma io sono ancora bambino, reclamo ancora i rami del papà, il calore della mamma, la compagnia dei fratelli. Dove è ora la mia terra meridionale? Dove il secco terreno squarciato dalle torride estati: non voglio l’asfalto, no, non lo voglio. Portatemi su un camion che corra, che corra lontano dall’asfalto.

“Siamo necessari, per deliziare chi sta sopra di noi.”

Nel mio perpetuo silenzio, il vecchio continuava la sua nenia.

“Si chiama olio, lo fanno con il nostro sangue.”

Non ce la feci più: mi voltai dal lato opposto e cercai di dimenticare le sue parole; non ce ne fu bisogno: pochi istanti dopo, due mani guantate sollevarono la mia cassetta, il vecchio saltò giù e si accasciò su un altro gruppo. Io alzai lo sguardo a fatica, un gesto tanto caro, mai mi parse tanto lontano. Guardai il mio Caronte accuratamente: la pelle pallida, i peli biondi, quell’involucro bianchiccio.

“Ma chi sei, tu? Che diritto hai di farmi questo?”

Non mi sentiva, come mai aveva sentito le grida spietate dei miei compagni.

Spossatezza e disillusione mi pervasero come una coperta che nel freddo si stringe alla pelle. Guardai lontano e vidi degli attrezzi che brillavano meccanicamente: era una luminosità fredda, così distante dal calore splendente dei raggi della mamma.

Dovunque compagni schiacciati, premuti e spremuti, putrefatti, calpestati; era la morte? Era il dolore lacerante che precede la morte?

Ansia, nausea, brividi, senza respiro torna il conato e questa volta lo assecondo: cado dalla cassetta, mi butto nel vuoto. Per un attimo sento la leggerezza del volo; l’aria che mi sfreccia accanto mi riporta alla salsedine, alle fronde di papà che ondeggiavano e sfrigolavano riempiendosi di vita. I fratelli caduti tornavano a danzare a ritmo del vento e le nuvole correvano, giocavano, gioivano.

Il vento, tanto vitale, tanto potente da donarmi la vita e assistermi nella morte.

E finalmente incontrai l’asfalto, puro e grezzo come lo avevo immaginato. Freddo e caldo allo stesso istante. Incolore, puzzava di un odore a me sconosciuto. Rimbombava e rideva, di tanto in tanto, al passaggio di qualche nuovo camion. Sussultò al mio tocco, ma non rispose alla mia richiesta di contatto. Non mi abbracciò, come anche l’essere più infimo, mosso dalla compassione, avrebbe fatto. Mi sorresse con distacco e superiorità fino a che il cielo divenne nero ed il tatto insensibile.

Mamma-sole, papà-ulivo, sono qui, finalmente, sono all’asfalto.

E non fui altro che questo: olio sull’asfalto.

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