15. Oltre i sogni e via lontano

Genere: Commedia

Anno all’estero.

A lungo queste due parole erano risuonate nella mia testa dipingendo aspettative e sogni. A lungo avevano brillato di una sfumatura esotica e impalpabile, remota. A lungo non erano state altro che una fantasia.

Fino ad oggi.

La macchina di mia madre si ferma davanti all’entrata della hall dell’aereoporto di Orio e, con il cuore che batte come una grancassa, scendo per recuperare le valigie dai sedili posteriori. L’auto riparte alla quasi impossibile ricerca di un parcheggio, così non mi resta che farmi coraggio ed entrare nella struttura per cercare i miei accompagnatori. Mentre spingo la porta mi tornano in mente le immagini dei momenti che mi hanno portata ad essere qui, all’aereoporto, in questa afosa mattina di metà agosto.

 

Quasi un anno fa, all’inizio della terza liceo, era arrivata nella nostra classe una professoressa mai vista prima che, piena di zelo, si era messa a spiegarci il progetto di “Intercultura”: si trattava di studenti di ogni tipo di scuola che decidevano di passare un intero anno didattico a studiare in un Paese straniero, alloggiando in una famiglia autoctona e partecipando alle attività proposte dal progetto stesso. Io l’avevo ascoltata rapita, senza scambiare neppure una parola con il mio compagno di banco, come era mio solito.

Un anno all’estero?

Sarebbe stato fantastico, pazzesco!

Persa nelle fantasticherie, già mi sembrava di poter toccare con un dito Londra, la città dei miei sogni, che finora non avevo ancora potuto visitare, ma che più di ogni altra mi aveva rapita con il suo fascino magnetico.

Poi la professoressa era uscita, e io ero dovuta tornare alla realtà.

Era una cosa stupenda, sì, ma irrealizzabile! I miei non mi avrebbero mai permesso di andarci.

Non ero mai stata neppure in vacanza da sola, se non contavo i campiscuola del CRE estivo in un paese a mezz’ora di distanza dal mio, e i miei genitori sarebbero stati contrari a farmi partire per un posto così lontano e così a lungo.

Quel pomeriggio, tornando a casa avevo rimuginato senza sosta su quell’opportunità: dovevo parlarne o no, con i miei? Sarebbe stato meglio continuare a fantasticare senza alcun risultato o provare a rischiare, anche a costo di dover sentire un rifiuto?

Per un paio di giorni mi ero lasciata tormentare da quel dilemma, poi la decisione: la sera, presi in disparte mamma e papà, gli avevo spiegato tutto.

Loro non erano apparsi troppo convinti, ma mi avevano lasciato con un ambiguo “Ne parleremo”. Ambiguo, ma era già qualcosa!

Ma le mie speranze, alla fine, vennero ricompensate e, una settimana dopo, tornando a casa da scuola, avevo trovato sul tavolo la lettera di ammissione a Intercultura.

Per la felicità, il mio cuore aveva perso alcuni colpi.

A causa di alcune selezioni, però, la mia destinazione era cambiata: non più Londra, bensì Broadstairs, una cittadina del Kent posta pittorescamente sull’oceano; avrei comunque visitato la capitale quasi ogni fine settimana.

Avevo dovuto sostenere alcuni esami di idoneità e alla fine, la sera del 16 agosto, eccomi pronta a partire. I miei fratellini più piccoli, Davide e Sofia, prima di andare a letto, erano corsi a stringermi forte forte, implorandomi di non andare via.

Avevo sentito un groppo alla gola doloroso e soffocante, ma non potevo farci nulla. Quella era la mia casa, la mia famiglia, ma ormai dovevo prendere in mano la mia vita e imparare ad essere indipendente. E comunque, li rassicurai, non sarebbe stata una cosa definitiva.

 

Le immagini si dissolvono, mentre muovo i primi passi nella hall affollatissima di gente di tutti i tipi che parla lingue diverse e sconosciute e si affretta da una parte all’altra dell’edificio. Il profumo di dopobarba ed essenze eleganti si mescola all’aroma forte del caffé proveniente da un piccolo chiosco sulla mia sinistra.

Sul muro di fronte vedo un enorme pannello nero che indica, in scritte arancioni, gli arrivi e le partenze dei velivoli.

Rovisto in tasca e trovo il documento di imbarco che mi era stato consegnato un paio di mesi prima; cerco con lo sguardo il numero della postazione di check-in e improvvisamente una sensazione di smarrimento si fa strada dentro di me.

Io non ho mai preso l’aereo!

Oh cielo, conoscendomi, finirò certamente per sbagliare, perderò il mio gruppo, non riuscirò a salire in tempo sul Boeing e rimarrò in Italia.

Quel pensiero mi fa venire e brividi e sto per correre al chiosco a chiedere informazioni, quando mia mamma mi raggiunge e mi indica di seguirla.

Arriviamo così nell’area check-in e lì scorgo i due professori che accompagneranno me e altri tre studenti nella prima parte di questa avventura.

Il mio cuore fa una capriola.

Lì raggiungo di corsa, nonostante il peso dei bagagli, e stringo con entusiasmo la mano a loro due e ai miei compagni. Siamo al completo.

Saluto mia mamma con un abbraccio veloce; mi manca già e so che, se mi dilungassi, sarebbe più difficile il distacco.

Penso che a volte, nonostante si desideri viaggiare verso il futuro, si è semplicemente terrorizzati all’idea dei cambiamenti e delle svolte che la vita ci potrebbe riservare. Ma bisogna prendere il coraggio a due mani e fare un passo avanti; dopotutto alla fine, guardandosi indietro, ci si rende conto che un passo, anche se ti ha portato più in là, non è nulla di che.

Le operazioni di check-in del bagaglio a stiva e dell’imbarco passano veloci e, in men che non si dica, mi trovo seduta sul sedile di quello che mi sembra una scatola di sardine dalla forma cilindrica. Da lontano, gli aerei mi erano sempre sembrati più massicci e… sicuri! Davvero può volare questo aggeggio?

Non faccio a tempo a trovare una risposta alle mie domande che, con un ultima accelerata, l’aereo si stacca da terra. Mi affaccio al finestrino con una curiosità quasi morbosa e vedo che la terra si fa sempre più piccola ad una velocità spaventosa. Passo così l’intero viaggio a guardare i paesaggi sempre diversi che si susseguono fuori dal piccolo oblò, tanto da farmi venire il torcicollo.

Atterriamo dopo un’ora e mezza all’enorme aereoporto londinese; lì ci attende un piccolo bus che, in due ore, ci porta a Broadstairs.

- Ora ci recheremo a Vere Road, dove troverete le vostre famiglie ospiti.- ci spiega il professore, ma io sento appena le sue parole. Sono troppo intenta a divorare con lo sguardo le due file di casette che sorgono ai lati della strada su cui ci ha lasciati il bus: sono tutte in stile edoardiano o vittoriano, piccole e graziose, con grandi finestre quadrate e ornate da rivestimenti in legno scuro che contrastano il bianco dell’intonaco.

Quando il mio gruppo si muove, lo seguo automaticamente, anche se i miei occhi sono ancora presi ad esplorare tutto attorno. Ma, quando scorgo in lontananza le auto delle nostre “host families”, avverto un improvviso tuffo al cuore.

Quelle sono le persone con cui dovrò passare il prossimo anno. Un intero anno!

E se non mi trovassi bene? Se fossero troppo severi, o troppo noncuranti? Se non mi piacesse la loro cucina? Se…?

Se, se e ancora se.

Da quando sono partita non penso altro che “se”.

Ma c’è davvero bisogno di farsi assillare da tutti questi dubbi?

Perchè, piuttosto, non aspetto di vedere cosa veramente mi riserva il futuro prima di perdere tempo a farmi tante domande?

Un viaggio è un viaggio sì, e non è facile, soprattutto se si è soli, ma affrontando le cose una alla volta tutto può apparire più semplice.

Ormai siamo arrivati. Coppie di genitori scendono dalle auto e ci vengono incontro.

Sento il cellulare vibrare nella mia tasca. Lo prendo e leggo il messaggio:

” Siamo orgogliosi di te, tesoro.” scrive mamma. ” Sappiamo che ce la farai!”

Alzo lo sguardo e incrocio gli occhi azzurri e sorridenti di una donna paffuta e bionda sulla quarantina.

- Hallo, Elizabeth, how are you?-

La mia “host mother” allunga una mano e mi porge un pacchetto regalo.

Lo scarto subito, presa da un’irrefrenabile curiosità: dentro c’è una tazza da the con scritto “Welcome to England”. Io adoro il the.

Sorrido alla donna e la abbraccio calorosamente.

Sarà un anno fantastico!

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