3. Da Osaka con amore

Genere: Commedia

Il sole scottava la pelle chiara di Anna. I capelli rossi erano legati in una coda scomposta da cui uscivano ciocche ribelli. Si guardò intorno, cercando di ricordare la strada per la sua vecchia casa, erano ormai cinque anni che mancava. L’aria era calda e asciutta, il marciapiede scuro era ingombro di cartacce e mozziconi di sigaretta lasciati a metà.

Si passò il dorso della mano sulla fronte sudata, approfittando di quel gesto per coprire gli occhi verdi dai raggi del sole. L’estate in Italia era ben diversa dall’estate giapponese. In Giappone l’aria era umida e si appiccicava alla pelle assieme al sudore, creando una sensazione insopportabile, tanto che anche dopo cinque anni, Anna non si era mai abituata.

Riconobbe, all’incrocio di due strade, la biblioteca dove da ragazza andava prendere i libri in prestito. La porta del cancelletto era aperta e Anna non resistette ad entrare. Attraversò il cortiletto ricoperto da uno strato di ghiaia ed entrò nell’edificio. L’aria fresca le diede un piacevole senso di sollievo. Si sistemò la coda, specchiandosi nella porticina di vetro, e si aggirò tra gli scaffali di legno scuro consumato dal tempo. Passò le dita sulle coste dei volumi disposti in ordine d’autore e da alcuni si sollevò uno sbuffo di polvere.

Mentre osservava i libri nello scaffale dedicato alla letteratura asiatica, incrociò After Dark, il primo libro che Anna aveva letto di Murakami Haruki. Era stato grazie a quel libro, letto quando aveva quindici anni, che si era appassionata alla letteratura giapponese, per poi passare alla lingua, alla scrittura, alla cultura e, infine, aveva preso la decisione di vivere ad Osaka per alcuni anni.

Aveva inizialmente incontrato numerosi ostacoli da parte dei genitori e degli amici: sarebbe stata troppo lontana da casa, in un Paese che non conosceva davvero, con l’unico appoggio di convivere con un’amica giapponese, Miyuki, che aveva conosciuto quando, a sedici anni, era venuta in Italia con l’associazione di Intercultura. Anna non aveva ascoltato le loro obiezioni, voleva poter vivere qualcosa di diverso dal solito, qualcosa che l’avrebbe aiutata a crescere e così era stato.

Dopo circa sedici ore di volo, era atterrata all’aeroporto di Osaka, stanca e dolorante. Aveva letto il suo nome, scritto male, su un cartello che una ragazza esile agitava con vigore per attirare la sua attenzione e aveva subito riconosciuto il volto sorridente di Miyuki. Da quel giorno aveva vissuto nel quartiere di Yodogawa-ku, a nord della città di Osaka, in un austero edificio con numerosi appartamenti più o meno piccoli. Quando vi si era trasferita, Anna era rimasta scioccata dal fatto che quel quartiere aveva più abitanti della sua città natale.

Dopo aver sudato giorno e notte sui permessi necessari, si era iscritta all’Università di Osaka. La sera usciva con i suoi compagni di corso per le strade illuminate del centro città, assaggiava piatti tipici come i takoyaki, polpettine di polpo saltate sulla piastra e condite con varie salse dolci e salate.

Erano bastati cinque mesi e aveva iniziato a pensare e a sognare in giapponese. Il suo atteggiamento era completamente cambiato in poco tempo: teneva la casa in perfetto ordine, per strada stava attenta a buttare le cartacce nei cestini e se scivolavano fuori le raccoglieva. Il momento più difficile della sua permanenza in Giappone era stato quando si era ammalata di raffreddore: non poteva soffiarsi il naso in pubblico e doveva indossare una fastidiosa mascherina bianca che, ad ogni starnuto, si riempiva di muco.

Il suo soggiorno in Giappone era diventato ancora più gradevole quando aveva conosciuto Kazuo, un ragazzo che frequentava in Università il corso di Lettere. Avevano iniziato a frequentarsi la sera, a studiare insieme e, nei giorni di vacanza, l’accompagnava a visitare il Giappone. I due si erano innamorati in poco tempo.

Il cellulare le squillò riportandola alla realtà. Pigiò in fretta il tasto e rispose.

Moshi moshi?

— Anna? — La voce di sua madre dall’altro capo del telefono era esitante.

— Sì mamma, sono io. — Rispose in fretta la ragazza. Le era venuto spontaneo rispondere in giapponese, prima.

— Meno male, credevo di aver sbagliato numero! Tra quanto arrivi?

— Tra poco, sono all’incrocio della biblioteca.

— Bene, il pranzo è pronto, fai in fretta. A tra poco. — Sua madre le schioccò un bacio dall’altra parte della cornetta e riattaccò.

 

Dieci minuti dopo, Anna raggiunse il cancello in ferro battuto di casa sua. Pigiò delicatamente il tasto del citofono e la voce stanca del fratello risuonò dall’apparecchio.

— Sì?

— Sono Anna.

Con uno sfrigolio, il cancello si aprì e Anna risalì i vari piani con l’ascensore, che la portò al suo vecchio appartamento. Non appena la porta si aprì, un paio di braccia la stritolarono con affetto.

— La mia bambina! Quanto tempo! — La voce di sua madre era spezzata da singhiozzi strozzati. Erano passati due anni dall’ultima volta che Anna era riuscita ad andare da loro per qualche giorno e quella volta era venuto anche Kazuo.

— Patrizia, lasciala entrare, così la spaventi. — Esordì la voce allegra del padre. La madre di Anna si staccò dall’abbraccio e aiutò la figlia a portare dentro la valigia.

Le lasciarono a malapena il tempo per farsi una doccia prima di pranzare. La madre le aveva preparato la sua vecchia stanza e c’erano dei vestiti piegati ordinatamente sul letto, assieme alla biancheria pulita. Con i capelli ancora umidi si rivestì velocemente, indossò le vecchie ciabatte consunte e si guardò attorno.

La luce penetrava dalle tapparelle abbassate a metà, illuminando con bagliori dorati il parquet rovinato dall’usura e dal tempo. Intravide il vecchio diario su cui scriveva tutti i suoi pensieri e sorrise sfogliandolo. Rilesse la sua frustrazione per i litigi con i genitori o con le amiche, il profilarsi infinito di pagine accartocciate dalle lacrime versate per amori infranti. Ogni cosa in quella stanza le ricordava la sua infanzia e ancor di più l’adolescenza. Alzò lo sguardo e trovò la frase di una canzone dei Bon Jovi scritta con l’indelebile sul muro. Quando sua mamma l’aveva scoperto era stato il finimondo.

Finì di asciugarsi i capelli e andò nel salotto, dove Patrizia aveva apparecchiato con il servizio migliore. Il pranzo fu davvero piacevole. Assieme ai nuovi racconti di Anna e ai vecchi ricordi, il discorso variava da momenti esilaranti ad altri tristi e commoventi. Persino il fratello di Anna dovette asciugarsi qualche lacrima.

— Deve essere stato difficile lasciare Kazuo. È davvero un bravo ragazzo. — Sospirò sua madre e per poco Anna non si strozzò con l’ultimo boccone di torta.

— Non ci siamo lasciati. — Replicò dopo aver bevuto un sorso d’acqua.

— Non potete nemmeno vivere una relazione a distanza. Siete troppo lontani. — Fece notare il padre con garbo.

Anna sospirò, era venuto il momento. Frugò nella tasca della borsa dietro di lei, tirò fuori una busta bianca e la porse alla madre. Patrizia l’aprì confusa e, dopo averla letta, rimase immobile alcuni istanti.

— Cosa dice? — Chiese il padre allarmato.

— È…una partecipazione… di matrimonio. — Sussurrò la madre in modo appena percettibile.

— Al mio matrimonio con Kazuo. — Sottolineò Anna. — In Giappone. — Aggiunse.

Il padre guardò la figlia, poi la moglie, poi l’invito e di nuovo Anna.

— Ti trasferisci là? Per sempre?

Anna non era pronta a sopportare la voce triste del padre. Respirò a fondo, prendendo coraggio.

— Sì, mi trasferisco ad Osaka definitivamente. Finirò l’Università e io e Kazuo ci sposeremo il quattro aprile del prossimo anno. Mi dispiace se per voi non è una bella notizia, ma ormai la mia casa è ad Osaka.

 

Il mattino del quattro aprile, Anna indossava l’abito bianco da sposa, mentre sua madre le sistemava i boccoli rossi, ornati di fiori di ciliegio.

— Sei bellissima. Kazuo è un ragazzo molto fortunato. — Sussurrò commossa, asciugandosi le lacrime.

­— No, mamma. Io sono fortunata ad avere dei genitori come te e papà. — Anna si chinò un poco e abbracciò la madre con sincero affetto.

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8 thoughts on “3. Da Osaka con amore

  1. Devo ammettere che mi piace il modo di scrivere in questo testo: è semplice e raffinato, ma non sconfina nell’eccesso. La storia non è delle più fantasiose, ma niente male. :)

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