50. Alienato con monomania dell’arte

Genere: surreale

E se le mie offuscate pupille fossero le sole colonne per sfiorare le nubi del sapere? Sarei l’Odisseo delle rosee spiagge orientali o un libero e francesissimo Achille. Nel mio inconscio stato patologico di sognatore e viaggiatore, nonché conscio stato patologico di gobbo e rozzo mangiapatate reietto e schivato, senza l’ausilio di ali o pinne, strabico come un tonno, ho visto la luce del mondo in tutti i suoi singoli puri colori. Viaggi sintetici tra additivi e pigmenti. E’ così facile fare esperienza dei più incredibili anfratti del mondo con la sola retina di un bimbo, che nella mia intima follia mi stupisco dei riccastri che niente sono se non monocoli e cilindri: scucion patrimoni su grandi navi e in giardini voluttuosi, alla ricerca di qualcosa che è sepolto da secoli e che non riesumeranno certo calpestando erbe esotiche o carezzando i ghiacci di terre desolate. E ancor più scherno mi faccio dei poverelli, il cui mondo finisce in pane e vino, prima delle alte siepi oltre cui mai potranno naufragare. Il viaggio, no, non è menar le cosce su e giù per le colline o le zappe sulle zolle, il viaggio è il mio scoprire, conoscere e gioire. Ho visitato, seduto, spazi deformi con sfere di bronzo e onde di cristallo, spigolosi e candidi pendii da cui fuggivano sagome scure, profonde come lo spazio. Sono entrato in castelli di carta e bordelli d’oro e… Giuro, ho visto papi incatenati su troni di terrore lanciare urli strazianti, che si perdevano nel colore del sole diventando flebili sospiri.

Muti.

L’unico e sporadico compagno dei miei viaggi di ramingo era il quieto cercare di arrivare da qualche parte, ma non volersi fermare lì.

Se mi fossi accontentato della compagnia di angeli dorati e muse fiorite, forse, ora sarei un grigio vegliardo con un cerchio sulla testa ed il sapere negli occhi, ma io amo la corruzione dei bassifondi, la pelle olivastra delle donne, le immagini amorfe che popolano i sogni, e come l’amante s’adegua alla sua dama, anch’io, ahimè,  mi sono adeguato ai paradossi dei miei viaggi. Deformato, scomposto e sbilenco, ho abbandonato ogni regola percettiva, le mani si son trasformate in bocche, i miei occhi son divenuti orecchi, gli orecchi piedi.

Ho percorso i dolci e sterili corridoi delle feste di palazzo, serpeggiando tra legni stemperati e tasselli bianco neri. Ho incontrato uomini che ascoltavano seppur sordi, altri che pretendevano di parlare, per dar fiato alla bocca, ma non osavano ripetere. Ho conosciuto di persona i più stravaganti suonatori di elicotteri e sacerdoti del silenzio, il cui unico scopo era, nel gelo più assoluto, di regalare ai posteri i bisbigli di candele. C’eran dirigibili, simboli massonici, prismi che inondavano le buie stanze coi colori del sole. I sapori pungenti di strisce magnetiche, accompagnate da adiabatici succhi di dodici frutti, erano l’antipasto d’una lunga cena di disgustosi panini e porcherie surgelate. Ho calpestato le meraviglie del mondo cogliendone ogni spigolo e curva: dalle tane delle termiti percosse da agili manguste, ai galli epilettici  delle foreste nere, senza abbandonare nulla, né bestia, né pianta né Dio. E quando mi pensai stanco di tanto peregrinare, scoprire e gustare, vidi i maledetti respingere una profetica cometa ed acclamarne una purpurea e salvifica: in nome della loro libertà mi rimisi in viaggio, e in luoghi di sconosciuta bellezza, tempeste mi sconvolsero il volto, annebbiando la vista ma ingrossando la testa.

Mi son fatto beffa degli amici e tessuto elogi così egoisti da innalzarmi all’etere divino. Poi dei teatri ho sperimentato la dolcezza: lo spirito tangibile della condizione umana, i complotti dei folletti e gli amori giovanili. Menestrelli han cantato storie di folli amori e boccette lunari, pianto la patria ed il fratello, altri ubriachi di delusione hanno maledetto il profumo dei fiori e cantato la putrescenza delle strade. Stanco m’avviai verso casa, ma i sentieri eran contorti, e con gran gioia mi persi. Città invisibili, miniere assassine, sepolcri narranti, oceani e mari. Studiai gli erbari fecondi di chi scrive il lutto di una rondine e i suoni mortiferi dei piccoli rapaci e vidi in grandi musei urne greche che cantavano storie di peccati. Rubavo ciliegie da giardini di campagna, tra l’erba e lo sporco trovavo la mia gioia, anch’io trovai la mia parte di ricchezza nell’odore dei limoni.

Ora, con indosso brandelli di una veste sudicia, alla fosca luce d’un lumino, io pazzo, io deforme e viaggiatore, fisso il vuoto con vago stupore. E in posa come se ritratto, mi rinchiudo a vivere gli ultimi attimi di lucida pazzia, attendendo tra lamenti e dondolii l’arrivo dello scheletrico colpo, che stiri lo spazio e mi chiuda tra le fibre di una tela.

Votami

3 thoughts on “50. Alienato con monomania dell’arte

Rispondi a giovanni Annulla risposta

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>