58. Quercus viator

Genere: introspettivo

Mi presento: sono una farnia, più nota come Quercus robur, ma voi potete rivolgervi a me, anche se dubito che lo farete essendo io una pianta, chiamandomi quercia.

Il mio viaggio inizia dove la mia vita finisce. Sono nata dove voi morite, seppellita sotto un mucchietto di terriccio bagnato. In poco tempo ho iniziato a svilupparmi, sentivo che i miei primi germogli stavano spuntando. E mentre crescevano i rami e le foglie, saliva la mia curiosità rispetto agli strani e ambigui comportamenti degli umani che spesso vengono a sedersi sotto di me. Adesso sono alta 35 metri, non male per un individuo della mia famiglia, e considerate che ho solo 347 anni, 3 mesi, 18 giorni e qualche minuto. Insomma, ho ancora tutta la vita davanti! Come ho già detto, questa è la mia vita, non il mio viaggio. Sarò sempre ancorata a terra dalle mie radici. In compenso dalla mia altezza posso vedere i viaggi degli uomini e delle donne che passano vicino a me. Ritengo che la mia sia una situazione privilegiata: è vero che non gioisco né mi rallegro per il mio viaggio, ma non soffro né piango come le persone che durante il loro cammino imboccano una strada sbagliata. La mia invidia è grande: vorrei abbassarmi al loro livello anche solo per qualche minuto per provare delle vere e proprie emozioni.

Voglio provare ad amare e a soffrire.

Voglio fare esperienza di tutto ciò che è possibile sperimentare.

In fin dei conti la mia posizione non è privilegiata. Proprio ora sotto la mia fitta chioma di foglie è stesa un coppia, sembrano felici.

Penso di essere nata nella forma sbagliata. Non mi si addice questa forma statica di albero.

Sono, come lo definirebbero gli umani, triste. Ma la tristezza su di me ha un effetto decisamente più fisico, mi sento stanca. Inizio a sentire i rami, che sarebbero poi le vostre braccia, cedere lievemente sotto il peso delle foglie; per fortuna si avvicina l’autunno, così mi libererò per un po’ dal peso delle mie foglie…

L’autunno e l’inverno sono ormai passati e le foglie sono già ricresciute, e con esse anche la stanchezza.

La mia chioma verde inizia a mostrare opache macchioline bianche e la tristezza persiste.

E’ arrivata l’estate, il tepore infuso dai raggi del sole e le torrenziali e refrigeranti piogge di questa stagione sembrano portare un effetto benefico al vigore dei miei rami e al colore delle mie foglie. La più grande fortuna di quest’estate, però, è Maria, mi pare si chiami così. Una ragazzina di 14 anni che, per proteggersi dal caldo si accoccola fra la mie radici più superficiali e studia il suo libro di geografia, almeno così mi pare di aver letto sulla copertina. La parte migliore è quando inizia a ripetere: oltre al suono melodioso della sua voce, parla di terre lontane a me sconosciute fino a poco tempo fa; mentre le sue parole compiono il tragitto dalla sua minuta bocca alla mia spessa corteccia, io mi preparo a viaggiare e a immaginare mondi differenti da quello che mi circonda. Mondi fatti di pianure immense, scanditi da rocce enormi che lei chiama montagne.

La sola immaginazione mi aiuta a dimenticare il prato sul quale la natura mi ha fissato; passo quindi tutto il giorno a immaginare le terre di cui parla Maria aspettando con ansia il suo ritorno, che coincide puntualmente quando il sole è nel bel mezzo del cielo. La passione che mette nel descrivere queste terre è tale che solo due ore dopo si accorge di dover tornare a casa.

E’ quasi mezzogiorno e Maria dovrebbe arrivare a minuti, ma oggi sembra tardare.

Sono le 3 passate, la sua assenza riporta la mia mente ai problemi che mi affliggevano prima che arrivasse. Mi accorgo che le macchie bianche sulle mie foglie si sono fatte più grandi e i rami mi fanno male. Provo a immaginarmi l’ultimo posto che Maria ha descritto, si chiama Islanda. Sono in un’immensa pianura, verdissima, con una brezza fredda e forte, ma rinvigorente; mi si stacca qualche foglia, ma al momento non ci faccio caso, sono troppo presa da questa visione incredibile. Sullo sfondo enormi rilievi di roccia contrastano con la pianura. Mi concentro adesso sulle enormi esalazioni di vapore che Maria ha chiamato geyser: fra le goccioline di acqua intravedo colori che riconosco come quelli dell’arcobaleno.

A quel punto però un forte dolore mi costringe a ritornare al mio mondo: mi si è staccato un ramo, urlo dal dolore, ma nessun uomo mi può sentire. Raccolgo le energie e noto che il ramo spezzato era secco e morto: cosa mi succede? Temo di essere ammalata, le descrizioni di Maria non sono abbastanza per guarirmi, ho bisogno di viaggiare davvero, di vivere davvero.

Il giorno dopo Maria giunge puntuale a mezzogiorno, e io fremo e tremo dalla gioia tanto da far cadere qualche foglia. Inizia a parlare del Canada.

In questo momento sono felice e non sento il dolore del ramo spezzato, Maria è li con me e non chiedo altro. Finita la descrizione del Canada, Maria se ne va come sempre.

Questa meravigliosa abitudine continua per un paio di settimane fino a che Maria non descrive la Grecia. Rimango affascinata dal suo parlare di terre aride, ma rigogliose. Pietraie, ma ci cresce l’ulivo e a volte anche qualche mia simile, altre querce.

Il giorno dopo Maria non si presenta.

Non mi dispero, è già capitato e non escludo che possa essere solo un contrattempo. Essendo sicura di vederla il giorno dopo sono tranquilla: i dolori non si sono manifestati per tutto il giorno e tutta la notte.

Ormai è mezzogiorno e mezza, e temo non verrà neanche oggi: così è stato, e così sarà per sempre.

Non ho più visto Maria dal giorno in cui ha descritto la Grecia.

Le mie foglie sono ormai pallide e biancastre, i miei rami secchi e stanchissimi. Un gruppo di uomini viene a esaminarmi, dicono che dovrò essere tagliata, non me ne faccio un cruccio, ormai non so più come vivere.

Una settimana dopo gli stessi uomini giungono con strani oggetti nelle mani. Sono lame con punte ricurve simili a spine di rosa. Ormai ne intuisco la funzione e la mia domanda è se farà male; la risposta è più veloce della domanda: no, almeno non farà male, ormai non sento più nulla se non i miei pensieri.

Iniziano i lavori e dopo poco cado a terra, mi tagliano in pezzi più piccoli ma la mia essenza, la mia ragione ancora non cessano di esistere; mi caricano su un furgone, come lo chiamano loro e inizio a muovermi.

Questo non me l’aspettavo, sento il vento sul mio legno vivo, ma questa volta non è il vento che viene addosso a me, sono io che vado incontro ad esso! Mi sono resa conto di cosa sto facendo, sto viaggiando, il sogno della mia vita è realizzato nonostante io possa intraprendere coscientemente solo l’inizio del mio viaggio, sono felice che il mio tronco, i miei rami e le mie foglie possano viverlo tutto, ovunque gli uomini li porteranno.

Bizzarra la vita: sono nata come voi morite e sono morta come voi nascete, tagliata dal ventre materno. Almeno una cosa in comune l’abbiamo: viaggiamo.

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6 thoughts on “58. Quercus viator

  1. Farnia (quercus robur)è il cultivar maggiormente diffuso nel suolo italico al tempo di Roma. È probabile che l’autore (più gallico che latino, a noi pare) inconsapevolmente contenga nei suoi hardware mentali il ricordo delle antiche foreste italiche. Non appare quindi casuale l’identificazione dell’autore con un simbolo fortemente collegato al territorio italico.

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