6. Il viaggio chiamato vita

Genere: Giallo

Dieci anni prima avevo promesso a me stessa che non ci sarei più tornata, non volevo lasciare ciò che avevo ottenuto. Invece eccomi di nuovo lì, a casa, dopo dieci lunghi anni in cui ero riuscita a raggiungere il mio più grande obiettivo, inseguito fin da quando ero bambina, far parte dell’F.B.I. Il mio era stato un percorso difficile. Tutti in quel paese conservatore e antico di soli 200 abitanti credevano fossi strana, non rientravo nel loro ideale di normalità. Io sognavo avventure come quelle di Sherlock Holmes, volevo risolvere misteri come quelli dei romanzi di Poe. Non potevo però realizzare i miei sogni lì. Così una volta maggiorenne andai via, mi trasferii negli Stati Uniti, utilizzando il denaro che avevo messo da parte gli anni precedenti. Nessuno credeva che me ne sarei andata davvero, nemmeno i miei genitori, da cui mi sarei aspettata parole di incoraggiamento. Tutti pensavano che le mie fossero solo fantasie, che non ci sarei mai riuscita. Appena arrivata in America mi ero arruolata nei Marines sperando di ottenere la cittadinanza americana, unico modo di avere un’opportunità di entrare nell’F.B.I. Ero determinata a dimostrare a tutti che si sbagliavano sul mio conto, che ero in grado di ottenere ciò a cui ambivo, che le mie non erano fantasie e ci riuscii.

Comunque un giorno immaginavo che sarei tornata, ma non avevo mai sfiorato l’idea che fosse per un funerale, o meglio, due.

Due giorni prima, mi era arrivata una telefonata dall’Italia, era il sindaco della mia cittadina che mi avvisava della morte dei miei genitori. Avevo preso il primo aereo ed ero tornata. Appena arrivata mi spiegarono che c’era stato un furto in casa e che il ladro, aveva sparato ai miei che l’avevano colto in flagrante.

Al funerale c’erano tutti i  miei compaesani, molti piangevano.

Io, invece, non riuscivo a versare una lacrima. Agli occhi degli altri sarei potuta sembrare un mostro, ma loro non mi conoscevano, non mi avevano mai conosciuta, non potevano capire cosa sentivo. La rabbia prevaleva sul dolore, ero arrabbiata con me stessa, mi chiedevo cosa sarebbe successo se io fossi stata lì, se non avessi lasciato coloro ai quali dovevo la mia felicità.

Mi pareva strano avere dei rimorsi quando, prima della mia partenza, avevo detto loro che li odiavo che li ritenevo responsabili della mia prigionia.

Dicono che ti accorgi dell’importanza delle cose solo quando le perdi. Ho scoperto essere vero.

Dopo il funerale avevo deciso di tornare la lavoro, ma una mia vecchia compagna di scuola mi propose di restare a casa sua per qualche giorno. Colsi l’occasione per assistere allo sviluppo delle indagini. A questo proposito chiesi al sindaco se la polizia locale avesse voluto un aiuto da parte mia ma mi rispose che non era necessario e che dopo lo shock subito sarebbe stato meglio se avessi pensato a riposarmi.

Aveva ragione. Non riuscivo a pensare alle indagini. In realtà non riuscivo a pensare a niente.

Ero partita dall’America con l’intenzione di far luce sull’omicidio, ma non immaginavo sarebbe stato così difficile.

Era semplice indagare sulla morte di uno sconosciuto e dopo i casi che avevo affrontato credevo di essere capace di dividere emozioni e lavoro, ma a quanto pare mi ero sopravvalutata.

Volli però comunque fare un sopralluogo a casa mia, chiedendo il consenso del commissario incaricato delle indagini.

Era una grande casa di campagna dalle mura bianche a due piani, circondata da un immenso giardino, ben tenuto, pieno di alberi imponenti, le quali foglie in autunno assumevano colori mozzafiato, che io e mio padre osservavamo mentre giocavamo insieme.

Non dovevano essere ladri esperti a giudicare dal disordine all’interno. Di solito tutto era pulito e in ordine grazie alla mamma, che a volte io e papà prendevamo in giro per le sue manie di pulizia ma lei non si offendeva mai, anzi, si metteva a ridere.

Andai in salotto. Il sangue era sparso per la stanza a causa dei colpi di pistola.

Mi misi ad esaminare più attentamente la stanza, accorgendomi che sul tavolo al centro della stanza c’era un foglio. Mi venne istintivo andare a vedere di cosa si trattasse. Mi lasciò perplessa leggere che era un atto di vendita della casa al comune. I miei non avrebbero mai venduto la loro amata casa, costata sacrifici e lavoro, cosa voleva dire? Notai però che l’atto non era firmato e non era nemmeno datato. Decisi di approfondire porgendo le mie domande al sindaco che era sempre stato un buon amico di famiglia.

Feci per uscire ma invece salii al piano superiore dove si trovavano le camere da letto. Entrai in camera mia. Era esattamente come l’avevo lasciata, ogni dettaglio, ogni libro, ogni singola cosa.

Poi entrai nella camera  matrimoniale. Mi gettai sul letto. Si sentiva ancora l’odore del sapone di papà e il profumo dolce della mamma. Stavo per piangere, ma ancora una volta mi trattenni, uscii e scesi la scale.

Mentre uscivo di casa mi resi conto che la porta non presentava segni di scasso, come se fosse rimasta aperta, opzione che esclusi conoscendo le vittime, o se avessero aperto agli aggressori. Appena sotto la porta inoltre vidi un piccolo bottone marrone, di un cappotto forse. Lo raccolsi.

Dato che il comune era già chiuso, ero andata a casa del sindaco che nonostante la tarda ora mi aveva accolto calorosamente e si era dimostrato disponibile.

Mi confidò che avevano deciso di cedere il terreno, dove sarebbe sorto un tratto della nuova autostrada, incassando la somma di denaro offerta loro. Fu così che il sindaco mi disse che potevo essere io a firmare avendola ereditata. Risposi che avevo bisogno di tempo per pensare, lo ringraziai e andai a casa della mia amica.

Le parlai di questa storia venni a sapere che il comune avrebbe incassato una parte del guadagno ricavato dai pedaggi, visto che sarebbe passata sul territorio locale.

La mattina seguente mentre ero all’ambulatorio del paese per ritirare il referto medico dell’autopsia sui corpi mi arrivò una telefonata dal commissariato, dove mi diressi immediatamente.

L’assassino, un pregiudicato si era costituito. Era entrato dalla porta principale e aveva cominciato a mettere ciò che trovava in uno zaino. Si trovava in salotto quando venne sorpreso dai coniugi a cui sparò con la sua Beretta 92FS. Poi fuggì.

Il caso fu dichiarato chiuso e le indagini vennero sospese anche se io era convinta che qualcosa non andasse.

Passai il pomeriggio a esaminare gli indizi. C’erano moltissime incongruenze, troppe.

La porta non era stata scassinata, dal referto l’ora del decesso risaliva alle 21 circa, mentre l’uomo affermò di aver compiuto il delitto dopo la mezzanotte, le pallottole usate erano di una Beretta 98FS, non di una  Beretta 92FS, come quella del presunto assassino che erano leggermente più piccole.

Fu quando mi ero arresa che mi venne un’illuminazione. Mi vestii, uscii di casa e corsi sul luogo del delitto. Una volta là, mi si presentò ciò che avevo immaginato. Il sindaco.

Come pensavo stava cercando il bottone che la mattina, in commissariato, gli avevo fatto notare di aver perso da uno dei suoi guanti. Ora sperava di trovarlo per far scomparire qualsiasi prova contro di lui.

Voleva convincerli a vendere, la scadenza per l’inizio dei lavori era soltanto un mese dopo. Si misero a litigare, non volevano andarsene. La situazione degenerò, prese la pistola di mio padre, una Beretta 98FS, dal cassetto della credenza, sparò due colpi. Aveva poi inscenato il furto e convinto il pregiudicato a dichiararsi colpevole in cambio di denaro assicurandogli di farlo scagionare, facendolo dichiarare incapace di intendere e di volere.

 

Tornai negli Stati Uniti, il colpevole era stato smascherato e non avevo più niente a casa, anche se tornarci mi aveva fatto bene.

A volte, o meglio sempre, si cerca altrove ciò che si ha già ma di cui non ci si era mai accorti, perché dato per scontato.

Casa è dove c’è chi ti vuole bene e dove, in qualunque circostanza, potrai tornare e essere accolto a braccia aperte.

Casa è un bivio, dove devi fare la tua scelta, è il punto di partenza del lungo viaggio chiamato vita.

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