61. Oltre le sbarre

Genere: avventura

Ho sempre pensato che quella finestra con le sbarre, che con così tanta violenza smorzava la luce che vi entrava timidamente, riflettendosi sulle pareti umide e sporche, fosse la vera essenza e la più grande tortura della mia prigionia. Avrei potuto vivere altri cento anni in quella scatola grigia e angusta che era la mia cella: non era certo la dura vita condotta lì dentro a farmi del male. Ciò che realmente mi distruggeva era quel pezzo di cielo, che si intravedeva dalle sbarre, quel piccolo pezzo di cielo che a volte era limpido da spaccarti l’anima a metà, e altre volte invece era cupo, grigio, e piangeva, e con lui anche il mio volto veniva solcato di lacrime, perché quella pioggia non poteva bagnarmi il viso. E così dunque i miei giorni si scandivano pacatamente: mi alzavo, discutevo con  il mio compagno di cella, e poi fissavo il cielo e ascoltavo attentamente i rumori che provenivano  dalla strada, sperando di indovinare un po’ lo svolgersi  di quella vita che mi era stata così brutalmente negata. E che in realtà ero stato io stesso a negarmi, ma non ne ricordavo il motivo. Dovevo avere compiuto qualcosa…Qualcosa di terribile…Ma il dolore del ricordo era troppo forte, così mi abituai a non pensarci, e finii col dimenticare. Il mio coinquilino invece era ossessionato dal proprio passato. Ogni notte i ricordi lo tormentavano e i sensi di colpa non lo lasciavano dormire: Per questo le occhiaie perenni sul suo volto gli donavano molti anni in più, e il dettaglio delle sue mani rugose, e dei suoi occhi chiari che così spesso erano stati anch’essi pugnalati e feriti a morte da quel blu oltre le sbarre, e dei suoi pochi capelli ormai quasi del tutto bianchi, come neve che lentamente attecchisce sul terreno, suggeriva una sorta di saggezza che solo nel tempo si può acquisire, e solo se la vita ha deciso di farti del male, e di fartene molto. Un giorno però essa giocò a nostro favore: Il sindaco decise di risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri stabilendo che chiunque avesse scontato almeno i tre quarti della pena prevista sarebbe stato immediatamente rilasciato. Così io e il mio coinquilino apprendemmo la notizia, e ci preparammo a spalancare le nostre ali intorpidite per spiccare il volo, pur non sapendo se ne fossimo di nuovo in grado. Avevamo del resto abitato per più di dieci anni in quella stanza, avevamo adattato i nostri giorni ai ritmi severi ma rassicuranti della prigione, senza scelte da prendere, senza luoghi in cui andare, dimenticando la nostra casa, i volti amici o quelli dei nostri figli che ricordavamo come poco più che neonati, le vie, i muri delle nostre città. E ora dal nulla saremmo dovuti uscire e ricominciare, ritornare, vivere. -Ho paura sai?- mi confidò il mio compagno di cella la sera prima. -Di trovarmi un futuro fuori di qui.- -Ci riuscirai.- risposi, e ci abbandonammo entrambi ai nostri inquieti sogni. Il giorno dopo ci salutammo di fronte ai cancelli della prigione, e ognuno si avviò verso casa propria. Per lui, una ricerca. Per me, un ritorno. O almeno così pensavo. Come ho detto prima, avevo dimenticato nei lunghi anni di nebbia della mia vita, le strade, la gente, la quotidianità. E invece ora mi tornava tutto in mente, e mi investiva stordendomi, e le mie gambe riacquistavano l’automatismo che spesso le aveva riportate a casa senza  nemmeno pensarci. E così giunto di fronte al cancello, la vità mi sbattè in faccia la porta che mi aveva prima tanto cortesemente aperto. Trovai un altro cognome sul campanello. Chiamai mia moglie a squarciagola. Lei dapprima si affacciò alla finestra, sbiancando, diventò pallida e scomparve da dietro le tende. Poi, riluttante, mi fece entrare. Il viale che portava alla modesta abitazione era  costellato di bellissimi fiori freschi, ma estranei. Io ricordavo un orto e qualche albero di melo. La porta era stata ridipinta di un verde scuro, che soffocava il legno che così accuratamente io avevo lavorato per farne risaltare le venature, preoccupandomi di ogni singolo dettaglio. -Perché è tutto così diverso?- le chiesi, quando fummo l’uno di fronte all’altra. Anche mia moglie era diversa: gli anni l’avevano sì consumata, ma regalandole una luce di serenità negli occhi che l’aveva resa più bella, e la sua bellezza e la sua tranquillità mi ferivano: aveva dipinta sul volto la pace che solo delle braccia che ti stringono possono darti, che solo l’amore ti può donare, come il sole che permette ai fiori di schiudersi e di vivere. Evidentemente quel sole non ero più io. -Sei stato via molto tempo, la vita per noi è andata avanti, e senza di te.Vai via, prima che arrivino i tuoi figli: tu per loro non esisti più.-fu irremovibile. Casa tua non esiste più, mi dissi. Del resto mi ero ucciso da solo, ora dovevo rinascere. Andai  a raccogliere i miei unici averi rimasti, avvilito, ma convinto che nascosto da qualche parte ci fosse un posto per me e qualcosa mi ci avrebbe condotto. Ma ora era necessario partire: del resto non si può evitare che una nave si allontani dal porto se non viene gettata l’ancora. Ma dove andare?  Senza idee ben precise per la testa, qualcosa mi condusse verso la spiaggia. Era ancora pieno giorno, e il sole spaccava le pietre. Una folla di turisti si avviava rumorosamente verso i locali che si affacciavano sul mare, mentre io camminavo verso la parte opposta, attirato inspiegabilmente dal suono delle onde che si infrangevano contro gli scogli. Osservai per lungo tempo il mare. E le sue onde. Doveva essere terribilmente forte, e chissà quante ne aveva viste, quel mare. Chissà quanti segreti nascondeva e quanta rabbia aveva dentro. Era lì da secoli ad urlare ed agitarsi, eppure nessuno sembrava accorgersene. Io mi sentivo esattamente così. Il fracasso lì intorno si fece d’un tratto  più assordante, tanto da coprire il tumulto che c’era nella mia testa. Strano, sapevo bene che a quell’ora la spiaggia era deserta. Cosa succedeva? Cercai la fonte di quel rumore a lungo, e scorsi un gruppo di uomini sul porto, che si accingeva a salire su una nave. Mi avvicinai, lentamente. Un uomo lì in mezzo raccoglieva nominativi, facendo una gran fatica per il caldo e per il caos generale che regnava intorno a lui. -Cosa succede qui?- chiesi ad un uomo sulla trentina vicino a me. -Andiamo a cercare lavoro! In America amico, in un altro mondo.- L’america…Se ne parlava tanto a quei tempi…-Allora lei, vuole salire?- mi accorsi di essere rimasto quasi solo. Fissai il mare, dietro di lui. E la città, dietro di me. Cosa aveva da offrirmi? Nulla. E poi, come si fa a guardare l’orizzonte e non sentir la voglia di partire? Così salpai. Dissi il mio nome a quell’uomo accaldato e stanco, salii su per la scala a pioli e, lasciando le assi incostanti e bagnate del porto, finii su quelle ben salde della nave. Eravamo in tanti, quasi tutti uomini e soli. E tutti senza bagagli, notai. Pensai che tutti avessimo in reltà delle enormi valige, fatte però di speranza. Per quanto mi riguardava, speravo tante cose. Che i miei figli non soffrissero mai per me. Che avessero un futuro migliore di quello che io avrei mai potuto dargli. Che quel nuovo uomo che non conoscevo li facesse sentire bene. E che facesse i massaggi a mia moglie, quando fosse stata stanca. Che le portasse dei fiori, che la facesse felice. E speravo di poter trovare qualcuno anche io, con cui sedermi davanti ad un camino la sera. Una casa, qualcuno con cui invecchiare. Speravo di essere felice, in un futuro, e di avere la forza per non guardarmi indietro durante quel lungo viaggio. Per questo andai a prua, ad osservare il cielo. Quando mi accorsi che qualcuno mi aveva posato una mano sulla spalla. Una mano rugosa, forte. Mi girai, e vidi un paio di occhi azzurri, solcati da profonde occhiaie, che mi fissavano ridendo. -Hai visto quanto è vicino il cielo ora?- mi disse. E partimmo per non tornare mai più dietro le sbarre.

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9 thoughts on “61. Oltre le sbarre

  1. Mi e’ piaciuto, Molto descrittivo, riesci ad immaginare la cella ma per essere ”avventura” bisogna andare avanti con il racconto

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