70. Una tazza di caffè

Sul mio tavolo c’era una tazza rossa. Era piuttosto strano, perché il bar era completamente bianco e quella tazza sembrava essere l’unica nota di colore in tutto il locale. Anche le persone erano bianche in un certo senso, non perché effettivamente fossero di quel colore ma perché sembravano tutte uguali, con gli stessi visi immusoniti e segnati da una lunga notte insonne passata a fissare il soffitto buio della camera da letto. Molti entravano e altrettanti uscivano in un andirivieni continuo e straordinariamente monotono. Il lieve brusio di sottofondo e il tintinnio della cassa erano gli unici rumori udibili. C’era un vecchio juke box, ma dal momento che nessuno l’aveva usato per molto tempo, era stato relegato in un cantuccio e lasciato lì a prendere la polvere.

Improvvisamente, la mia attenzione (sebbene non fossi molto attiva quella mattina) venne catturata da un uomo alto e attempato, vestito con un completo rosso molto elegante ma alquanto logoro e consumato. I suoi occhi erano verdi e penetranti e contrariamente all’aspetto esteriore, vivaci e calcolatori. La voce stridula della cameriera mi obbligò a distogliere lo sguardo: “Gradisce anche del cioccolato in polvere sul cappuccino?”. Improvvisamente mi resi conto che dal bordo della tazza traboccava una schiuma lattiginosa: “Io ho ordinato un caffè…”. La ragazza mi guardò stizzita e con un debole “Ne preparo un altro” si eclissò dietro il bancone candido.

Quando tornai a guardarmi intorno, quell’individuo singolare era scomparso. Quasi immediatamente una voce fredda esclamò inaspettata: “Qualcosa non va signorina?”. Era l’uomo di prima. Io risposi come inebetita: “No, tutto bene grazie…”. Poi riflettei meglio e chiesi a mia volta: “Ci conosciamo per caso?”. Qualcosa in lui mi faceva pensare che ci fossimo già incontrati. “E’ una domanda difficile a cui rispondere.. diciamo che ci conosciamo entrambi alla perfezione senza esserci mai parlati.” rispose lui: “Sono la tua coscienza”. Io lo guardai incuriosita e anche un po’ spaventata: “Sta scherzando non è vero? Insomma, la coscienza delle persone non se ne va in giro come se fosse lei stessa un’ essere umano. E poi non ho mai sentito nessuno che abbia detto di aver visto la coscienza di qualcuno!” Se era uno scherzo, era di sicuro il peggiore che mi avessero mai fatto. Ma lui replicò: “In questo momento non mi vede nessuno, infatti. E posso rispondere immediatamente alla domanda che ti stai ponendo in questo  istante nella tua testa; perché la mia coscienza ha le sembianze di un anziano signore? E’ più semplice di quanto tu creda… sei talmente avulsa dal mondo e dalla società che la tua anima sta invecchiando e se non vi porrai rimedio subito, ho paura che impazzirai”. Probabilmente ero già impazzita perché corsi dalla cameriera e quasi le urlai: “Lei vede quell’uomo in piedi accanto al mio tavolo, vero?”. Lei si voltò per guardare meglio, ma la sua espressione sconcertata valeva più di mille parole. “No, mi dispiace… è sicura di star bene? La vedo un po’ pallida”. Io mi risedetti senza una parola al tavolo e con la faccia cerea e una voce simile a quella di un morto sussurrai: “Perché sei qui?”. La sua risposta fu concisa: “Per evitare che tu impazzisca, come ho già detto” Ero senza parole, anzi la mia mente ne era piena e sopra tutte ne torreggiava una, che avevo paura di pronunciare: come. La mia coscienza rispose: “Ecco, ho qui questo album di fotografie. Vedi, è diviso in tre parti: passato, presente e futuro. I tuoi. Ora aprirai questo raccoglitore nell’ultima sezione, contrassegnata con il cartellino rosso. Ci saranno delle foto, come puoi immaginare, che riguarderanno la tua vita futura. Nel momento in cui ne toccherai una, sarai trasportata al suo interno e osserverai quello che accadrà. Io non potrò seguirti, sarai sola.” Al sentire quelle parole, le mie mani si ritirarono tremanti sotto il tavolo. “E’ tutto finto. Non ci credo. Non voglio farlo” protestai. “Ma se non è vero, che cos’hai da perdere?” incalzò lui. Allora afferrai l’album e lo aprii. Una folata di vento gelido entrò dalla finestra e girò le pagine fino a che si fermarono su una grande foto in bianco e nero che raffigurava un ufficio. La toccai proprio al centro e il bar intorno a me cominciò a ruotare.

Il bianco dei tavoli, del bancone, delle sedie e dei muri diventò cangiante fino a quando non si fermarono sul nero e al posto del vecchio arredamento, nella stanza apparvero un lungo tavolo da conferenze, circondato da dodici sedie, tutte occupate da uomini e donne d’affari. A capotavola sedeva una versione più vecchia e scura di me, con il lunghi capelli ormai grigi raccolti in uno chignon e un paio di occhialetti rotondi calati sul naso. Il mio ego futuro era intenta a leggere i risultati della borsa su un giornale e nessuno sembrava essersi accorto di lei fino a quando non si alzò e iniziò il suo discorso sul rendimento annuale dell’azienda. Quando ormai si fece buio, la riunione finì e io la seguì fino ad uno degli edifici più lussuosi di tutta la città. Salimmo con l’ascensione fino al quinto piano ed entrammo nell’appartamento numero sette. L’ appartamento in cui viveva era completamente nero, con ripiani neri, tende nere, persino divani e coperte neri. I dettagli dell’ arredamento e le stanze erano stupendi, ma nella casa regnavano il silenzio e la desolazione. Mi guardai intorno un po’ meglio, alla ricerca di un marito o un figlio che abbracciassero la futura me e le chiedessero come fosse andata la giornata. Non trovai nessuno. Non mi riconoscevo affatto in quella donna, così spenta e avvilita e mi rifiutavo di credere che sarei diventata così, un giorno. Inevitabilmente un pensiero oscuro si fece strada dentro la mia testa: io ero esattamente così. Non sentivo i miei amici da moltissimo tempo e avevo lasciato il mio ragazzo prima di intraprendere gli studi all’università. Da allora le mie giornate si erano protratte sempre nello stesso modo, in una monotonia che mi schiacciava giorno dopo giorno. Sentivo la mancanza dei colori, la mancanza di qualcosa di nuovo che desse una sferzata alla mia vita. Volevo tornare indietro e iniziare a comportarmi diversamente. Chiusi gli occhi e pensai a come poter cambiare. Quando li riaprii, trovai l’anziana faccia della mia coscienza che mi guardava. “Com’è andata?” mi chiese. Mi guardai intorno: ero ritornata al bar. Prima che potessi rispondere, la cameriera mi portò una tazzina nera colma di caffè fumante. Ringraziai e guardando l’orologio mi accorsi che erano passati solo pochi minuti. Sul tavolo c’erano due tazze una rossa, piena di cappuccino che non bevevo mai la mattina e una nera, colma della solita bevanda amarognola che ordinavo tutti i giorni. “Quale berrai?” mi chiese la mia coscienza. Io senza esitare allungai la mano.

 

Sono alla stazione per prendere il treno per Genova, la mia città natale. Un fischio annuncia che il treno sta per partire. Mentre mi affretto verso il binario ripenso alle due tazze che ho lasciato sul tavolo: quella rossa era vuota.

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