8. E.E.E.

Genere: Biografico

 “Itaca ti ha dato il bel viaggio [...]”

 È vero che lo sparnazzamento classico, semi-naturalizzato Dublinese, di quel sovrano eroico il cui oro era la terra, olii e vini gli argenti, e gli armenti, ma naturalizzato in salamoia, non solo ci abbia fornito – in forma di mito – grandi lezioni (oltrecché vaste letture), ma anche un certo principio, un curioso conchifero concetto, caro a chi coglie la carta d’imbarco, al contrario, è chiaro!, di chi si accoccola, a casa, al suo caro o a chi crede, che checché ne cogiti chi lo crede in “c” si caratterizza per “e” tré. Epiteto, Epidermide ed [in fine (che in questo caso era anche in finis)] Epitaffio.  (Eukariota pure, ma va bé).

In questo senso, una sorta di triste orfanotrofio in gestione agli stessi bimbi (in balìa più che non in bàlia) e, come si diceva, semovente, deambulante.

Gli anni irripetibili li aveva dissolti il dolore. La demenza dei tutori aveva straziato il bimbo; dico il genitivo archetipo e soggettivo e oggettivo al contempo, quello ancestrale!, era come venuto meno, fino all’autodistruzione delle parti con conseguente cambio di programma: l’odio della madre. La nostra storia (una storia vera, tanto più la crederete tale), ma più che d’altri la sua, dell’alieno, comincia proprio qui, su questa piastrella di porfido. Ma non è porfido “normale”, come dite, no, era porfido strano, alieno, perso. Nero. Che di solito è rosso, eh, si sa.

Le prove docimasiche. Le prove docimasiche erano un po’ come i pronomi di persona, per lui. Pidocchi. E la sua barba, lunga, ne era squisitamente priva. Tanto priva, ne era, che non solo non mi ha voluto dire il nome (omen?) ma ha anche taciuto le prove docimasiche. Eppure un nome ero sicuro che ce l’avesse, come anche i pidocchi. Va detto, a onor del mento!, che chi ha la barba è più che un giovane, e chi non ha barba è meno che un uomo, e lui aveva la barba. Però non ne aveva tanti di anni! Anzi agli occhi legis era minore (il che è tutto scrivere). Ma che volete, non era un filosofo né un sociologo né un moralista, e forse non sapeva neanche chi fosse stato Adriano (imperator), però portava questa barba nera e spelacchiata. Ohé, si metta a verbale che fui io ad accostarlo, non lui, no, questo va detto sì. Beh, ma si sa: gli faccio un come va? Mi guarda e fibrilla una mano in segno di diniego. Mi spiego. In quel momento gli occhi parvero significare la certezza della povertà, guardare con dignità disperata la solitudine. Abitudine non mi è desistere, e in cambio di significante mantenni sostanza invariata, con la lingua parlata nell’ambasciata inglese. O al limite americana. Funzionò, e lui capì, s’illuminò e tantopiù! si raddirizzò sù in piedi, spalancandomi in faccia i suoi occhietti da americano. O al limite da inglese.

-  Oh! That’s good… You know… No one here… – e intanto si spolverava i calzonacci e gli altri stracci magri, come colto di sorpresa (oh dottore, entri entri, scusi non faccia caso…)

Già loquire in english non mi vien facile, si figurino i lettori l’interloquire poi!

- Mmm, where… -

- Where am I from, sir?- mi conciliò educato, esplicando con la mano.

Annuìi. Mi disse di no. Mi disse che lui non viene da nessuna parte. Mi disse che la parte del viaggio che preferiva era quella tra il principio e la fine (dalla beta al psi, in termini biblici). Mi disse: – I really don’t care to die, I think it will be my last act.- e poi ricordo che si è scrollato le spalle. Chissà che freddo sul quel porfidino, con ‘sto tempaccio poi. Si parla del tempo che fa per non parlare del tempo che passa. Si rilassa e mi chiede se ho da fumare. Ci sedemmo dopo poco, su un muretto piroburritico: sanza vetri rotti né cocci di piatti o altri oggetti di ostracismo, dal muretto stesso, e dalla propiretà protetta. Ricordo che facemmo una bella chiacchierata alla Cicerone, metà in Italiano e metà in inglese (no, niente latino). Mi raccontò la sua storia. Ancora oggi non ci credo. Ricordo che mi guardò negli occhi, e con un guizzo rampicatore delle pupille disse questa frase, che mi sono portato dietro per anni. La frase era questa: the past is like a backpack, you have to carry it on your own shoulders, behind you.

Poi aggiunse altre cosucce, pettegolezzi, si sarebbe detto, di qualche sventurato, di qualche vagabondo internazionale. Ma ci misi qualche tempo per capire che era la sua storia.  E mi spiegò che chi vive sulla strada non può permettersi troppi bagagli. Per questo ce l’aveva col past. Era un po’ come una sorta di Aoristo qui ed ora, un Aoristo alla Orazio. E considerata tutta la strada che aveva fatto, anche all’Ariosto, l’aoristo!, con tutto il midollo che doveva avere in quelle quattro ossicine da chiaroveggenza macabra. Me ne ha raccontate di cotte e di crude (anche una piccante, ma tralascio), mai dolci o sdolcinate, ma fu il come, il come! Sassi, d’altronde, che chi d’altronde viene c’ha quel suo fascino, quella scioltezza linguistica, e cogitativa, anche. E ripeto, come credere a tutto quello che mi fu detto da quella barba? Come la storia del barattolo di piselli, incredibile!, dico. Sembrava sempre stesse spiegando di un suo defunto, d’un fratello, dall’affezione commossa che lo coordinava. D’un caro assente, o meglio, esente  dall’essere presente.

Una storiella di quelle… che Eschilo pareva un principiante, barzellette, in confronto, bazzecole! Che poi, chissà se era davvero vero. Già l’inizio non mi convinceva, cum quell’egressum ex utero così roccambolesco, e tutto il resto… E quei suoi viaggi e ogni sua morte… Perché ogni oltraggio è morte, e a diciassette anni, uno è già morto perfetto. E gli incontri con quegli occhialutissimi dediti al bene altrui, o al male, per meglio scrivere, ma disinteressati. Le soluzioni non trovate e disperse su un nuovo treno-merci abusivo, alla una della notte verso… verso una tappa nuova. E mi descrisse le occhiate. Quelle che si dava con la gente, (lui disse the masses) e disse che la gente (qui disse invece people) è strana, quando sei uno straniero, le facce sono brutte, quando sei da solo. Con il sesso gentile. Ahi quanto a dir qual era è cosa dura, l’arsura che gli riservavano, di core, di tutto core! Ore e ore a sognare, dilatarsi in posti nuovi, anzi, in posti belli. La lunghezza delle giornate, quando il gastèr reclama un bolo riempiente, e la pesantezza di non avere un cavolo di niente, un soldo di cacio, e allora – diceva – rivagabondava nelle metropoli, metro per metro, un passo alla volta, fino a spanchinarsi in un altrove non troppo distante da dove si era sbrecciato, dissolto, scrostato un minuto prima, o un giorno, i “levati di tòrno!”, a capochino, lui dello stesso valore di un crisoelefantino: nullo perché assente alla conta delle opere, delle bellezze!, delle maledette accecanti di una corona di spine che trafigge gli occhi e… e, che ti resta se non una lacrima in bottiglia nella salamoia della vita?, come messaggio in una segreteria  spenta, l’arrendersi all’evidenza della trasparenza urbana, chiama urla e scalcia ributta vomita sta male e annega nel sale, si dice che non vale, che l’annegare fa schifo in questo mare.

Ma è il come lo dice che fa male.  Allora gli chiedo cosa fa domani. E mi dice che se gli do un soldo, forse mangia.

 

Per ultimo gli ho chiesto il nome. Mi ha detto di chiamarlo nessuno, come Odissé, penso io.

La sua Itaca? Vivere.

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3 thoughts on “8. E.E.E.

  1. “la prossima volta inserirò le note”.
    Hahahaha sei il solito, chi ti conosce un minimo capisce subito che è tuo (chi ti conosce meglio lo comprende,quasi).

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