81. Notte

Genere: psicologico

Duke Ellington lo salutò allegro dalla radiosveglia, dialogando farsescamente con una giuliva Ella Fitzgerald sul tema di It don’t mean a thing.  Gli rispose, sollevando le palpebre e stirando le labbra secche.

Cercò gli occhiali scuri sul comodino e si coprì gli occhi; nel silenzio si alzò a sedere sul bordo del letto e scoprì al freddo le gambe. Vi rimase per un minuto o due, riprese l’orientamento e si concesse un breve stupore nel sentire un abbaiare troppo mattiniero.

Si alzò e camminò sui suoi passi di anni verso il corridoio a destra, la porta a sinistra e il bagno, e appoggiatosi al lavello, prese il barattolo della schiuma da barba: premette con forza sul pulsante, facendo uscire soltanto un alito d’aria compressa.
Si accarezzò il volto, trovò che era ruvido, ma decise di conviverci, per quella giornata; ritornato in camera da letto, a poca distanza dallo scrittoio trovò la sedia e sullo schienale i pantaloni, li indossò pesando il corpo tremante sulla testiera del letto, poi mise la camicia che stava sotto di essi, piegata.  Da ultimo infilò i calzini, che trovò sul lato destro del terzo cassetto dall’alto, un passo a destra della sedia.

Percorse di nuovo il corridoio, proseguendo dritto, e prese dal mobile davanti a lui una mug di ceramica e un cucchiaio; si versò il caffè dalla caraffa e, sedendosi a un tavolo con un eccesso di tre posti (che tuttavia utilizzava a rotazione, in senso antiorario) lo bevve.

Consumata quella colazione, prese il bastone poco lontano e uscì dalla porta dell’appartamento; scese cautamente le scale fino a un piano in cui l’ascensore fosse agibile, fece scorrere la fredda griglia arrugginita e scese fino all’ingresso del palazzo.

Il naso immediatamente gli mandò un odore misto di gomma bruciata, freddo e limatura di ferro, una costante quasi tragica nell’aria in fiamme di Pittsburgh.

Camminò, sbattendo il bastone con delicatezza sul marciapiede e proseguì strascicando piano le scarpe lise sul lato di una strada incomprensibile di tante automobili, uomini e grida.

La bacchetta descriveva imperturbabile il suo arco davanti ai passi del vecchio.

Un piede dopo l’altro, misurato, senza incroci di gambe, senza sforzi per le ginocchia, giunse alla fine dell’isolato, a un gomito che conosceva; sentì odore di empanadas e bestemmie in portoghese provenire da un chiosco di brasiliani che offrivano specialità messicane, il suo punto di riferimento abituale per attraversare le quattro corsie che gli stavano davanti.

Non ricordava tanto rumore, né in quello riconosceva un momento di silenzio: nelle tre settimane trascorse dall’ultima volta che era uscito i rapporti tra i due dovevano essere peggiorati al punto da costituire un basso continuo di mugugni e ringhi per gli ordini dei clienti, saltuariamente interrotto da assoli di composite blasfemie.  Non attraversò perché non sentì di doverlo fare, non quella volta almeno.
Forse di quello si trattava, quando era uscito, un che di diverso nell’atmosfera vinta della città, anche se vinta da chi non lo sapeva: sarebbe potuto essere stato lui, pensò.

Sì, l’aveva vinta, si disse, e gli piacque di tenere per sé quest’idea mentre sicuro su una strada nuova (o almeno dimenticata) passava tra le case fatiscenti della sua preda, la sua città d’acciaio.

Usciva dal quartiere degli operai della fonderia: dirne il nome non serve perché nella città ce n’erano molte, e in fondo era solo una parola.  Sentiva che di là, tornava: non sapeva dove, in realtà, non esattamente, o non ancora.

Colpì una gamba e si riscosse dai suoi pensieri mentre il consueto benpensante di passaggio si scusava con la voce strozzata. Per tutta risposta le sorrise: non capitava spesso che lo facesse e lui stesso si stupì.  Era davvero troppo allegro, si disse!

Per non disturbare quella sua pace aveva persino mentito, nascondendo una rude verità sotto gli occhiali, chissà se per cortesia o noia, nemmeno lui l’avrebbe detto.

Prima di quel giorno avrebbe tirato dritto, o avrebbe scoperto gli occhi bianchi come faceva per spaventare i bimbetti che cercavano di vendergli biscotti fuori casa.

Capitava troppo spesso per i suoi gusti.

Era davvero vecchio, si identificava assolutamente con la sua idea di vecchio; e se infine aveva
accettato la cosa, non capiva ancora come ci si fosse trovato.
A volte, contagiato dagli ispanici del chiosco, bestemmiava anche lui, non contro la moglie che non aveva o il dio che gli teneva compagnia, ma contro un’età che gli era piombata addosso all’improvviso, alienandolo dagli amici, isolandolo come un reietto al tavolo di un mondo che lo aveva rifiutato alla nascita: se ne pentì.
Aveva smesso di combattere senza aver mai intravisto tanto quanto quel giorno la vittoria e smesso di cercare la fine, la stessa che oggi aveva percepito svegliandosi, senza che nulla accadesse, nei fatti; ora tornava.

Lasciò la bacchetta a terra e si attaccò a una ringhiera di ferro battuto. La sua mano nemmeno ebbe bisogno di trovarla, bensì la afferrò con semplicità: era fredda, e scura.

Nera, persino: toccò il nero che aveva rifiutato sempre, agognandolo.

Questo lo vedeva, questo poteva saperlo, o ricordarlo, con la voce della madre a volte rotta, a volte dolce, su quello stesso marciapiede che ora grattava la gomma delle sue suole.

Giunse a una colonna di cemento e pochi centimetri dopo le sbarre ripresero, identiche a prima: passava il dito teso su di esse, seguendole e suonandole, come fanno i bambini per mano alle madri disinteressandosi di loro.

Allo spegnersi dell’ultima nota unisona il dorso della mano sfregò contro l’ultimo pilastro di cemento e il vuoto: i piedi pestarono forte, cadendo quasi, un lastricato irregolare.

E pochi passi avanti, alcuni a destra, gli unici non contati; seppe gestire l’angolo ottuso di un sentiero che non percorreva da mezzo secolo e che altri avevano pulito e battuto.

Sfiorò con la destra un angelo, il ginocchio sbattè su un crocifisso: quell’errore, il dolore suo alla gamba e di Cristo al braccio, era parte di una visita, una routine che lo avrebbe come sempre reso riconoscibile al padre.

Si sedette, compostamente, sul marmo: toccò il nome.

Gli sembrò che il cimitero morisse mentre abbracciava la sua aria umida, irriconoscibile dopo cinque volte dieci anni, trasfigurato da una battaglia subita ma uguale nell’essenza al bimbo che lo aveva lasciato.

Fiori forse ce n’erano stati, ma nessuno che conoscesse il nome era rimasto oramai a nutrirli, nessuno salvo lui, a ricordare un grande uomo.

Perì il suo corpo conscio di una vittoria voluta da altri, e di questa comunque felice, rinunciando alle porpore fredde di una pietosa umanità per la lotta difficile in un mondo per gli occhi.

Celebrò la sua anima la casa cui, partito, tornava con lo scudo il figlio al padre.

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3 thoughts on “81. Notte

  1. Interessante e molto ben scritto. Alla fine, forse, la forma è eccessivamente circonvoluta e rende il finale inutilmente criptico.

  2. Finale non scontata che si rivolge ad un lettore attento alla ricerca di una lettura altra dal convenzionale.
    Complimenti per la fluidità della scrittura!

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