9. Chissà se il cielo sarebbe stato azzurro

Genere: Psicologico

Aprii l’anta dell’armadio per controllare di aver preso tutto. Sulla parete interna era ancora appesa la foto nella quale Beth mi faceva le corna dietro la testa, Anna sbadigliava di gusto e Sophie faceva la linguaccia. Avevamo otto anni quando ci avevano immortalato in quelle pose e a quei tempi facevamo danza insieme. Eravamo piccole, sorridenti e spensierate nei nostri body blu. Dopo sette anni eravamo ancora lì a condividere la nostra passione, i nostri sogni e le nostre sofferenze. Ora però tutto stava cambiando. Chissà quando le avrei riviste, chissà se le avrei riviste. Non sapevo nulla di quello a cui stavo per andare incontro, nulla della mia vita che, nonostante avessi puntigliosamente progettato, stava prendendo una strada ignota e che avrebbe sconvolto tutti i miei piani.

“Tesoro, sei pronta? Ti serve una mano?”.

“No mamma, grazie – le urlai dalla mia camera, – scendo tra un attimo”.

Staccai la foto dalla parete di legno, il cui odore mi aveva sempre nauseato ma che in quel momento trovavo rassicurante, forse perché sapeva di casa, di normalità, e la infilai con cura nello zaino. Poi mi guardai intorno: la stanza era completamente spoglia, non avevo dimenticato nulla, quindi uscii e scesi le scale. La porta d’ingresso era spalancata e soltanto due enormi valige stavano ancora sulla soglia.

Era una bella giornata, il cielo era trasparente e terso, rischiarato dal bagliore del sole ancora basso sull’orizzonte e avvolto da un alone aranciato. Chissà se dove saremmo andati il cielo sarebbe stato così bello, chissà se sarei riuscita a costruire una nuova vita, se avrei potuto ricominciare a danzare. Scavalcai le valige per portare lo zaino in macchina e poi le scavalcai di nuovo per tornare in casa  a salutare la vita passata, l’antica normalità che abitava dentro quelle pareti  e che stavo per abbandonare, forse per sempre.

La mamma mi abbracciò e mi disse che quando sarei guarita avremmo fatto ritorno e avremmo ricominciato la nostra vita lì da dove l’avevamo lasciata, come se il viaggio che stavamo per intraprendere non fosse esistito, come se la nostra vita da quel momento fosse stata messa in modalità “pausa” fino al momento in cui saremmo tornati per ritornare alla modalità “play”. Ma io sentivo che si sbagliava perché niente  può essere cancellato, ogni evento della nostra vita  anche il più sofferto e doloroso è un passo che ci spinge avanti e farà parte della nostra vita per sempre. In ogni caso, non credevo che saremmo tornati, non lo credevo affatto, ma non glielo dissi. Mio padre sollevò con fatica le ultime due valige. Ci sorrise. Nonostante l’allegria del volto le sue labbra lasciavano trasparire una disarmata sofferenza e ci disse che tutto era pronto per partire.

La mamma, dopo l’ultimo giro della casa per controllare di aver preso tutto, raccolse la borsa, ne estrasse le chiavi e uscì, chiudendo la porta dietro di sé con un gesto definitivo. Io ero già seduta in macchina, con le cuffiette, gli occhi chiusi e la testa contro il finestrino mentre i Maroon 5 mi rimbombavano nelle orecchie. Non appena la mamma salì, papà mise in moto e partimmo.

Fuori tutto scorreva veloce al nostro passaggio. Mi sembrava di veder scorrere la mia vita fuori dal finestrino, dentro i luoghi in cui ero cresciuta, ma non riuscivo a soffermare il pensiero su alcun particolare. Tutto scivolava via. Stavo lasciando forse per sempre il paese dove avevo vissuto dalla nascita, la realtà della quale mi ero sempre sentita parte. Avevo il timore che in nessun altro luogo mi sarei sentita veramente a casa e ora che stavo lasciando ciò che il tempo aveva lentamente costruito, cosa mi rimaneva? Quanto avrei dovuto aspettare per sentirmi di nuovo nel posto giusto in un altro luogo? Mi voltai verso il sedile accanto a me e scorsi un foglio sotto una rivista automobilistica di mio padre. Era il foglio informativo di una clinica: indicava la data, l’orario e il luogo in cui mi sarei sottoposta alla prima dose di chemio, il motivo per il quale ci stavamo trasferendo in una grande città, di cui non sapevo nulla, di cui non volevo sapere nulla. Lessi il mio nome in stampatello con gli occhi pieni di lacrime e mi venne l’impulso irrefrenabile di urlare, di strappare il foglio in piccoli pezzi e gettarli dal finestrino. Non potevo ancora credere che fosse capitato davvero a me. Ho sempre vissuto con la certezza che la mia vita sarebbe stata fantastica e lunga, senza imprevisti; immaginavo quando mi sarei laureata, quando mi sarei sposata e avrei avuto una famiglia. Mi sentivo invulnerabile, come se le disgrazie che colpiscono gli altri non mi avrebbero mai toccato. Ora invece non immaginavo più nulla, per non illudermi, non mi interessava più nulla. La mamma si girò e mi vide fissare il foglio, me lo tolse delicatamente dalle mani e mi guardò. Poi si girò verso mio papà e gli lanciò un’occhiata di rimprovero. Lei non voleva che io trovassi quel foglio per caso, ma era inutile continuare a comportarci come se il motivo per il quale ci stavamo trasferendo fosse un’allegra vacanza in campagna.

Eravamo in viaggio da quasi un’ora quando papà parcheggiò la macchina nel piazzale di un autogrill. Entrammo e nella sala spaziosa e luminosa c’erano pochissime persone. La mia attenzione fu colpita da una famiglia, supposi, composta da una donna, un uomo e un ragazzo giovane, circa sui diciannove anni, su una sedia a rotelle. Ci sedemmo al tavolo accanto e ordinammo ciascuno un panino. Finito di mangiare papà si alzò per pagare e mamma disse che andava al bancone a prendere il caffè e che mi avrebbero aspettato alla cassa. Mi alzai dalla sedia e mentre indossavo il cappotto mi soffermai ad osservare la famiglia al tavolo accanto, in particolare il ragazzo, che allegramente descriveva gesticolando qualcosa ai due adulti. La donna mi guardò così le sorrisi e mi avviai verso l’uscita. Mentre camminavo qualcuno mi posò una mano sulla spalla e mi girai di scatto. “Sai cara, quello è mio figlio, è sempre stato un ragazzo sorridente” disse la donna del tavolo accanto, in piedi davanti a me. “La sua passione più grande era la corsa, lui era nato e viveva per correre. Circa un anno fa era in macchina con suo padre quando si sono schiantati: suo padre è morto ma lui miracolosamente si è salvato. Dopo essersi risvegliato in ospedale ha scoperto che non avrebbe mai più potuto camminare, né correre: avrebbe dovuto vivere per sempre su una sedia a rotelle. Non avrebbe più potuto seguire il sogno sul quale aveva pianificato tutta la sua vita. Per la verità tutti i suoi piani sono andati in fumo. Poi col tempo ha imparato… ha imparato a convivere con la sua nuova esistenza e, cosa più importante, ha imparato a gioire di ogni singolo attimo della sua vita come se da un momento all’altro tutto potesse finire. Ora sono convinta che una settimana della sua vita, così piena, possa avere più significato di tutta una vita spesa inerte a guardare i giorni scorrere”.

“Perché mi ha detto questo?” le chiesi, commossa e esitante. “Ho visto come lo guardavi e ho avuto la sensazione che potesse esserti utile la sua storia: gli ostacoli cambiano la nostra vita, e noi dobbiamo cambiare per continuare a vivere questo dono. Addio cara.” Mi sorrise e tornò dalla sua famiglia.

Stavamo viaggiando ormai da tre ore quando papà ci annunciò che finalmente stavamo attraversando la nostra nuova città. Andavamo veloci ma riuscivo a catturare tutti i particolari di quello che vedevo fuori dal finestrino: i bambini che correvano, gli alberi verdi che fiancheggiavano la strada, gli edifici modesti e sopra di noi scorsi il cielo del colore più bello e luminoso che avessi mai visto. Pensai allora che forse il cielo era così grazie a quella madre che avevo incontrato per caso in un anonimo autogrill e che mi aveva ridato la forza di guardare in faccia la realtà, di apprezzare anche le minime gioie quotidiane e di lottare fino alla fine per rendere ogni attimo degno di essere vissuto.

Votami

10 thoughts on “9. Chissà se il cielo sarebbe stato azzurro

  1. molto interessante.
    ê un racconto, forse di vita vcissuta , propria o di un conuscente che dopo una difficile situazione scopre la bellezza di continuare a vivere.

  2. Complimenti,ciò che ho letto e’carico di una sensibilità che mette in chiara evidenza il valore e la bellezza della vita,dove paradossalmente non ci può essere felicitã senza guardarsi attorno e prendere coscienza di quanta sofferenza ci circonda.
    Continua a scrivere di queste cose(fanno bene al cuore.

  3. Il mettersi alla prova, il partecipare, l’essere presente, è segno di una vivacità intellettuale che ama il confronto. Questa è la strada giusta da percorrere e indicare agli altri per garantire, sostenere e vivere la speranza.
    Sono orgogliosa di essere stata la tua maestra.

  4. Chissà se dove saremmo andati il cielo sarebbe stato così bello…rendere ogni attimo degno di essere vissuto…bellissimo, profondo, ricco di significati. Bravissima.

  5. Un racconto commovente, ricco di valori e significati..cosi sei tu, ragazza sensibile , profonda e ottimista. Bravissima!

Rispondi a cristina Annulla risposta

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>