Una storia vera come monologo interiore.
Sveglia alle sei e quarantasette minuti, bagno, armadio aperto e una fila di maglioni blu scuro impilati uno sull’altro in modo ordinato, il profumo nauseante di naftalina, autobus, traffico, una sedia e un ufficio, al riparo da tutto, al riparo dal mondo.
Banalità. Staticità.
Un capo di lavoro e un dipendente che abbassa lo sguardo; una donna, una donna e le sue membra una donna e il respiro sul collo di lui una donna e i respiri corti una donna e le stelle una donna e il cielo una donna e tutte le stagioni. Una donna: l’amore.
Banalità. Staticità.
Iniziare il lavoro alla solita ora e finirlo alla solita ora, pranzo sempre nello stesso bar del centro a prezzo fisso, un panino e una bottiglietta di acqua naturale, niente di più e niente di meno. L’obbedienza inflessibile ai proprio impegni ai propri obblighi e il peso delle imposizioni delle convenzioni e della normalità.
Banalità. Staticità.
Le regole l’attenzione al denaro i muri e i limiti e non poter vedere il tramonto perche l’ufficio non ha finestre e non poter vedere il mondo perché non ci sono finestre. Le ferie solo di una settimana a fine luglio, respirare l’aria di mare per poco, assaporarla ma poi fuggire lontano. I documenti e un’identità che non c’è, un’identità fatta a pezzi, frammentaria, non possedere nulla e non essere nulla. Le onde del mare e la decomposizione e il ronzio delle voci. La musica a volume troppo basso per essere sentita e le righe di un foglio e i margini; colorare e stare nei bordi non rischiare non allontanarsi dall’idea che gli altri hanno dell’altro e di noi.
Banalità. Staticità.
Correre ma non saper camminare
Fare l’amore ma non saper amare
Urlare ma non saper sussurrare
Avere bisogno di qualcuno avere bisogno di altro di essere altro di volare lontano al sicuro dai rumori del mondo. Un diario e i fogli riciclati un diario e i pensieri ora sconnessi ora ordinati ora confusi ora fusi. Non vivere: niente di strano. Ti sembra normale?
Banalità. Staticità. Paura.
Lo stancante e sempre uguale lavoro era finito, la fermata dell’autobus, l’autobus, i soliti volti le solite storie la solita musica nelle orecchie il solito posto accanto al finestrino. Non guardare fuori perché nulla cambia perché tutto è sempre così uguale a se stesso perché niente muta niente cresce solo si lascia percorrere e poi dimenticare. Poche fermate dopo, capelli ricci rossi due occhi grandi che potevano guardarti dentro e delle dita sottili: ora aveva una compagna di viaggio. C’era un violino che gli toccava le gambe e lui si lasciava accarezzare da quelle corde.
Lei e un violino
Lui e il buio
Un finestrino e il grigio fuori
Una macchina fotografica nelle mani esili e gli occhi curiosi di lui che si affacciano in un mondo nuovo
Una foto fatta nel pomeriggio di sole. C’era il sole? Lui non l’aveva nemmeno visto
Una foto e una farfalla che si alza da un fiore
Un violino che sfiora le gambe
Una foto che sfiora l’anima
Luce.
Non si riconobbe più nelle sue mani nella musica che stava ascoltando nell’aria che respirava e nella vita che trascinava
Chi era? Chi era non lo sapeva
Si toccava ma non si sentiva più: uno sconosciuto davanti a se stesso
Perdersi nella vastità della realtà e pensare a cose leggere nonostante la minaccia della pesantezza
Pensare. Piano, pensare.
Persi e abbandonati in se stessi e per se stessi
Ascolta i pensieri taciuti
Ascolta questo silenzio
Uscire dalla vita e farsi altro uscire dalla vita e inventare se stessi in mezzo alle nuvole guardarsi ed essere nuvola essere vento. Diventare altro e uscire dalla trappola che poi è la vita
Le maschere indossate più per gli altri che per se stessi le maschere per essere riconosciuti e per esistere
La maschera caduta fatta a brandelli lasciata a terra sanguinante
L’ordine e le imposizioni lasciate indietro e pianse tutto il buio che aveva dentro
Urlare
In silenzio urlare: ridatemi il cielo e al diavolo i padroni al diavolo le regole
Continua a consumarmi questo mondo che non mi basta più
La felicità ma cosa è
La libertà di poter piangere su un autobus e la libertà di non nascondersi
La libertà che poi è la leggerezza la libertà che è planare sulle cose dall’alto e non avere macigni sul cuore così come dice Pasolini
La libertà che è vedere una farfalla che si alza da un fiore la libertà che è una foto
La libertà di essere più che di avere
La libertà che sono le catene slegate
La libertà che è guardare oltre le stelle per avere il coraggio di proiettarsi al di là delle mura innalzate
La libertà di cadere a terra ed essere a pezzi ma uniti da un filo sottile del proprio colore preferito che profuma, profuma di mare e di sale, e l’odore del sale non si può dimenticare.
Respirare.
Tornare a casa, l’armadio aperto e i maglioni in disordine.
Con leggerezza calpestare la terra. Vivere.