15/2017 Ridatemi il cielo!

Una storia vera come monologo interiore.

Sveglia alle sei e quarantasette minuti, bagno, armadio aperto e una fila di maglioni blu scuro impilati uno sull’altro in modo ordinato, il profumo nauseante di naftalina, autobus, traffico, una sedia e un ufficio, al riparo da tutto, al riparo dal mondo.

Banalità. Staticità.

Un capo di lavoro e un dipendente che abbassa lo sguardo; una donna, una donna e le sue membra una donna e il respiro sul collo di lui una donna e i respiri corti una donna e le stelle una donna e il cielo una donna e tutte le stagioni. Una donna: l’amore.

Banalità. Staticità.

Iniziare il lavoro alla solita ora e finirlo alla solita ora, pranzo sempre nello stesso bar del centro a prezzo fisso, un panino e una bottiglietta di acqua naturale, niente di più e niente di meno. L’obbedienza inflessibile ai proprio impegni ai propri obblighi e il peso delle imposizioni delle convenzioni e della normalità.

Banalità. Staticità.

Le regole l’attenzione al denaro i muri e i limiti e non poter vedere il tramonto perche l’ufficio non ha finestre e non poter vedere il mondo perché non ci sono finestre. Le ferie solo di una settimana a fine luglio, respirare l’aria di mare per poco, assaporarla ma poi fuggire lontano. I documenti e un’identità che non c’è, un’identità fatta a pezzi, frammentaria, non possedere nulla e non essere nulla. Le onde del mare e la decomposizione e il ronzio delle voci. La musica a volume troppo basso per essere sentita e le righe di un foglio e i margini; colorare e stare nei bordi non rischiare non allontanarsi dall’idea che gli altri hanno dell’altro e di noi.

Banalità. Staticità.

Correre ma non saper camminare

Fare l’amore ma non saper amare

Urlare ma non saper sussurrare

Avere bisogno di qualcuno avere bisogno di altro di essere altro di volare lontano al sicuro dai rumori del mondo. Un diario e i fogli riciclati un diario e i pensieri ora sconnessi ora ordinati ora confusi ora fusi. Non vivere: niente di strano. Ti sembra normale?

Banalità. Staticità. Paura.

 

Lo stancante e sempre uguale lavoro era finito, la fermata dell’autobus, l’autobus, i soliti volti le solite storie la solita musica nelle orecchie il solito posto accanto al finestrino. Non guardare fuori perché nulla cambia perché tutto è sempre così uguale a se stesso perché niente muta niente cresce solo si lascia percorrere e poi dimenticare. Poche fermate dopo, capelli ricci rossi due occhi grandi che potevano guardarti dentro e delle dita sottili: ora aveva una compagna di viaggio. C’era un violino che gli toccava le gambe e lui si lasciava accarezzare da quelle corde.

Lei e un violino

Lui e il buio

Un finestrino e il grigio fuori

Una macchina fotografica nelle mani esili e gli occhi curiosi di lui che si affacciano in un mondo nuovo

Una foto fatta nel pomeriggio di sole. C’era il sole? Lui non l’aveva nemmeno visto

Una foto e una farfalla che si alza da un fiore

Un violino che sfiora le gambe

Una foto che sfiora l’anima

Luce.

 

Non si riconobbe più nelle sue mani nella musica che stava ascoltando nell’aria che respirava e nella vita che trascinava

Chi era? Chi era non lo sapeva

Si toccava ma non si sentiva più: uno sconosciuto davanti a se stesso

Perdersi nella vastità della realtà e pensare a cose leggere nonostante la minaccia della pesantezza

Pensare. Piano, pensare.

Persi e abbandonati in se stessi e per se stessi

Ascolta i pensieri taciuti

Ascolta questo silenzio

Uscire dalla vita e farsi altro uscire dalla vita e inventare se stessi in mezzo alle nuvole guardarsi ed essere nuvola essere vento. Diventare altro e uscire dalla trappola che poi è la vita

Le maschere indossate più per gli altri che per se stessi le maschere per essere riconosciuti e per esistere

La maschera caduta fatta a brandelli lasciata a terra sanguinante

L’ordine e le imposizioni lasciate indietro e pianse tutto il buio che aveva dentro

Urlare

In silenzio urlare: ridatemi il cielo e al diavolo i padroni al diavolo le regole

Continua a consumarmi questo mondo che non mi basta più

La felicità ma cosa è

La libertà di poter piangere su un autobus e la libertà di non nascondersi

La libertà che poi è la leggerezza la libertà che è planare sulle cose dall’alto e non avere macigni sul cuore così come dice Pasolini

La libertà che è vedere una farfalla che si alza da un fiore la libertà che è una foto

La libertà di essere più che di avere

La libertà che sono le catene slegate

La libertà che è guardare oltre le stelle per avere il coraggio di proiettarsi al di là delle mura innalzate

La libertà di cadere a terra ed essere a pezzi ma uniti da un filo sottile del proprio colore preferito che profuma, profuma di mare e di sale, e l’odore del sale non si può dimenticare.

Respirare.

Tornare a casa, l’armadio aperto e i maglioni in disordine.

Con leggerezza calpestare la terra. Vivere.

 

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