2. Sotto la pioggia

Camminava per le vie del centro reggendo un ombrello celeste, si guardava intorno, non vedeva nulla di familiare. Sentiva appena le parole indistinte delle canzoni nelle cuffie, sovrastate dalla pioggia incessante, ma le sillabava silenziosamente. Arrivata davanti a quell’enorme palazzo che era la sua nuova casa lo guardò sospirando, quanto le mancava Roma! A pensarci l’aveva sempre amata, guardata, vissuta in ogni sua forma, esplorato ogni suo angolo, parco, giardino. E ora era in quel posto freddo, buio e umido, non poteva credere che suo padre avesse deciso di abbandonare Roma per sempre per trasferirsi lì. A peggiorare le cose, lei non capiva bene quella lingua fatta di accenti, parole strascicate, vocali aperte e consonanti sorde. Guardava le persone per strada passare velocemente, non riusciva a trovare il senso del vivere sotto la pioggia incessante e ascoltare una lingua viva ma morta nelle persone, loro troppo impegnati a correre in giro per parlare e comprendersi. Troppo presi dalle proprie abitudini e dai propri impegni per lasciarsi affascinare dai suoni della voce degli altri.

Chiuse l’ombrello e salì i gradini, pochi istanti ed era già fradicia. Entrata in casa fece un cenno di saluto a sua madre, immersa come sempre nella lettura di quegli stupidi romanzetti rosa che l’avevano sempre fatta  sentire a casa, non degnò di uno sguardo nient’altro e afferrò  il suo diario. Nulla le era più familiare, in una città così chiassosa e al contempo silenziosa, della propria scrittura. Vedere come le lettere si stendevano sulla pagina, con la stessa facilità con cui le pensava, vergava lettere rotonde nella spessa carta gialla, parole aspre, scure, nebbiose dello stesso colore del panorama fuori dalla finestra, in estremo contrasto con la stanza di quell’appartamento. Sfogliò le pagine, erano ormai tre settimane che viveva a Londra e non si era ancora abituata ai suoi suoni. Sentiva la mancanza del sole e del cielo azzurro, dei turisti sotto le finestre, delle campane all’angelus la domenica. L’unico sprazzo di sole era Giulia. L’aveva conosciuta a scuola, in un gelido pomeriggio di febbraio, stava semplicemente immobile con il cellulare fra le mani e una lenta melodia che si levava dall’apparecchio. Era nell’estasi più totale, ammaliata dal suono. Le era sembrato di riconoscere la musica, poi realizzò. Non era fra le sue preferite, ma era italiano, ne riconosceva le parole. Lo capiva. Non sapeva perché era successo, solo ricordava la sensazione di bagnato sulle guance. La speranza di un faro in mezzo all’oceano. E l’abbraccio stretto di un’amica che si sentiva esattamente come lei. Non si sentiva più così persa, le parole le avevano dichiarato che sarebbero state per sempre la sua ancora.

Ancora non si capacitava come aveva potuto legarsi così tanto a lei in così poco tempo e con così poco in comune. Giulia era sempre vestita di nero, aveva i capelli tinti di verde e leggeva ogni cosa le capitasse sotto il naso, parlava bene l’inglese quanto l’italiano ed era in grado di farla sempre sentire a casa. Si parlavano sempre e spesso si aiutavano. Ma quello che le teneva unite era soprattutto la musica, i testi, le parole. Si sentivano a casa.

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