Son P.. Oggi faccio vent’anni. Nacqui bergamasco il 26 Marzo 1996, e morirò italiano, per grazia di Dio, anche se Dio, ormai, l’hanno seppellito pure da noi: figurati tu fra sessant’anni. Eppure, d’altronde, che so di certo riguardo il futuro? Nessun senso nel fingersi ottantenni ad appena vent’anni…
‹‹Ma sicuro è che morirai››, mi fa allora Beatrice, appollaiata al sushi-bar con divaricate le gambe mature e adolescenti, con un’aria di cinica ostensione, anche se ormai manco so più che vuol dire “ostensione”. ‹‹Dal latino ostendêre e…›› bla bla bla… così mi corregge uno degli amici della Bea, sai, uno di quella modernissima specie nana, gobba e caccolosa che si manifesta così schifosa e ripugnante per la sua sola qualità esistenziale: l’amicizia colle ragazze (del tipo, “annusare ma non toccare”). Storpiano alcuni l’italiano, come quando oltralpe, colla Commedia dell’Arte del XVII secolo, lo Zanni enfatizzava la gestualità per far ridere quel popolo umile che è la Francia. E in effetti alcuni sono pure francesi, sti amici della Bea; altri crucchi, altri inglesi: gli amici della Bea sono un gruppo così, dalla mentalità aperta, sovranazionale.
A me, non ti dico, mi dicono che mi sarebbe bastato ignorarli sti mocciosi, tutti (mi fanno che c’ho un tal orgoglio da poter sormontare sia le nubi sia le grida dei demoni, ovvero, per intenderci, fossi nato secoli fa, ci scommettono in tanti che sarei stato un grosso poeta). Ma mi dicono che se un poeta può pur sopravvivere senza poesia, come me, non può però sopportare di veder degradato e banalizzato l’oggetto dei suoi versi (che nel mio caso, ripeto, son versi che non ci sono). E così io vedo, rivedo e stravedo la mia Beatrice sorridente fra questi demonisfigati…
‹‹Ma sicuro è che morirai››, ribadisce la Beatrice ai suoi:
‹‹Verissimo Bea! Nessuna certezza all’infuori della morte!››
‹‹Sono d’accordo anch’io… che più d’un giorno è la vita mortale? Può parerti bella, la vita, ma vale niente…››
‹‹Sapete che dico? Beato chi non nasce!››
‹‹Ben detto!››
E così, in questa risma di discorsi, il Tempo trionfa il nome mio e il nostro mondo… ma come c’ero capitato, io, in questi discorsi? Beh… se non erro, era Kafka a dire che la vera via passa per una corda, che non è tesa in alto ma rasoterra, così che sembra più fatta per inciamparci che altro… ecco, che tu ci creda o no, io ci son inciampato una notte da tanto ero pieno di sonno, cadendo proprio sulla seggiola innanzi la Bea; fu proprio come rinvenire in un’oscura selva, o piuttosto come in una mediocre parodia di Dante…
E così, eccomi qua: osservo gli amici della Bea che partono ciancianti le loro storie: ragazzi… oh ragazzi… il Jimmy, pare che il Jimmy abbia appena scritto una nuova poesia… wow, un’altra? È stato rapidissimo… eh, biensur, Jimmy macina versi alla velocità della luce… certo, però bisogna stare attenti, infatti alcuni, ovviamente, hanno da dissentire, non dimentichi e certo memori dell’antica lezione oraziana del laborlimae… gli dicono comunque di leggerla, al Jimmy… ma lui, niente, non vuol sentirne, si vergogna troppo… ma la Bea insiste, insiste, lei ci tiene, lei sì che sa cosa si prova a scrivere poesie… ma Jimmy persevera, persevera a negare sé e il suo capolavoro d’intima interiorità, come lo aveva lui stesso definito poc’anzi… ma la Bea non trova davvero le parole per dire quanto ci tenga a sentirla… e se è così, allora ok! Cedette d’un tratto Jimmy.
Morì moritura la foglia grigia
L’hai vista d’ubriaca vita sbocciare
Dal fiore blu-zaffiro seccata d’una sete
Come tenera fede
L’ha implorata sto clima d’amore
In seguito l’ha abiurata
Gettata fra l’erba
E lei sorrideva d’estate.
E abbassando il cellulare dove se l’era segnata fra le note, Jimmy rivolge un intenso e stralunato sguardo a Beatrice: si ha l’impressione che il povero pollo l’avesse scritta per amor di lei, come tutti (eccettuato me; non scrivo versi). E Beatrice dice seriosa e profonda: ‹‹è molto bella, se hai pensato a qualche persona particolare mentre la scrivevi, quella è una persona davvero molto fortunata››
E invero non so mica se Beatrice si ritenesse anche fortunata. Bella sì, ma probabilmente fortunata no.
Arriva la cameriera. Così gli amici della Bea, ovvero gli inglesi Georges e Charles, i francesi Jean-Jacques e Marcel, i tedeschi Kraus e Otto, gli amici della Bea, appunto, eccoli tutti che ordineranno o pizza o pasta solo perché si è in Italia, anche se si è in un sushi-bar. Ordineranno la pizza, sicuro: ognuno ha i suoi pregiudizi, in fondo, proprio come dice sempre il mio amico M..
Così, saziatisi, sti repellenti si disperderanno a poetare per la città fedeli alle propria via di poesia. Kraus e Otto andranno a trincare la loro birra, a ringozzarsi dei loro wurstel e a sedersi sui prati dove c’è il divieto di bivacco, il tutto rigorosamente urlando (tanto in Italia si può fare quel cazzo che si vuole); e lì ricomporranno le struggenti riflessioni degne di un Goethe.
Jean-Jacques e Marcel, maledetti dal giorno in cui seppero leggere, si trascineranno dando scandalo di sé, insudiciando la piccola morale borghese e abusando di droghe, e tutto per la disperata ricerca del nouveau; e che importa se derideranno l’Italia intera come un paese di machiavellici cospiratori.
Georges e Charles passeggeranno invece fra i prati dell’università di Bergamo a cogliere margherite, e stendendosi e imbevendosi di tè e della straordinaria bellezza che è questo paese, catturate le farfalle col retino, reciteranno il noto chiasmo keatsiano “beauty istruth, truthis beauty”, ma continuando però a ridacchiare sul come sia possibile che gli Italiani affrontino le partite di football come fossero guerre e le guerre come fossero partite di football… e solo gli inglesi non la smetteranno più di ridere, con un cri-cri di grillo a far da sfondo.
Ma io, che farò io? Del resto cosa so di sicuro o certo sul futuro?
‹‹Sicuro è che morirai››, mi fa allora Beatrice; e io vorrei replicare, ma invero non c’ho tanta voglia, come non ho mai avuto voglia di scriverle dei versi, io: Beatrice taccio, da sempre, che per ogni dove fece deserto dell’erba verde.
Ma in ogni caso, alzatomi da qui, me ne andrò agli inusati bastioni di Bergamo, come un uomo che non si cura neppure della sua ombra stampata s’uno scalcinato muro (una spensierata felicità, per alcuni). Passerò per vetrine più o meno lucenti: i vari cafés de Paris, le botteghe cinesi, i kebbabari, i giapponesi, le gasthausetc.
Eccomi, rivedrò poi Piazza della Libertà col suo candore fascista; e poi su, per viale Vittorio Emanuele, oltre tetti e città e sul lungomura, e quindi sopra l’Italia intera e l’Europa e il mondo. E via, via verso il duomo e il neoclassico, Santa Maria Maggiore e il barocco, Piazza Vecchia e il rinascimento, fin sotto al palazzo comunale (dove adesso celebrano i matrimoni della Hunziker).
In uno di questi posti incontrerei il mio amico M. con un selfie al Colosseo…
‹‹Non siamo mai stati a Roma››
‹‹Infatti… al tempo di photoshop si può fare di tutto…››
E allora avrei un’epifania e…
‹‹Ma smettila con ste stronzate››, mi fa M. salendo in macchina, ‹‹che epifanie? Tu sei come questo selfie: racconti stronzate››
Sto seduto con lui sulla multipla.
Sbatte la portiera.
‹‹Borbottavi nel sonno qualcosa s’una tale Beatrice…››
Capisco così come la mia vita sia stata fin ora un lungo sogno in fieri: una volta risvegliatosi non rimane che raccogliere i pezzi, come i sassolini sedimentati sui letti dei fiumi, ed ecco, per te, i miei fiumi: l’Italia viene dalla letteratura, come lessi da Asor Rosa, ma della letteratura non ci rimangono che residui e stereotipi e parole, proprio come ci rimane in mano, dopo la merenda, la cartaccia d’una merendina. E allora l’Italia va fatta altrimenti.
Son P., e forse studierò antropologia a Bologna… o forse no… ma oltre la morte mi prefiggo un’altra certezza:
Tanto sarà di peso fondare l’italiana gente.
‹‹Non è stata una brutta idea››
‹‹Partire alle due per andare a Ravenna?››
‹‹Beh… torniamo a casa››.
è scritto benissimo, mannaggia, solo non capisco bene dove voglia andare a parare… mi riprometto di rileggerlo.
Se la tira un pochino e eccede con le citazioni, ma è bravo. Cacchio finalmente un bel pezzo!
Ma solo io ho colto le citazioni?!
Il racconto è scritto bene, tranne alcune ampollosità che si potevano certo evitare e un largo cripticismo di fondo (ma sicuramente sarà il limite di battute).
Penso che tutta la prima parte sia un sogno dove sono mostrati dei cliché grotteschi, presi dalla letteratura e dalla storia, sia italiana che straniera. Non a caso le numerose citazioni sono usate come involucri fini a sé stessi, esibizione di gusci svuotati di ogni contenuto (come le cartacce di una merenda), esibizione di un modo sterile di approcciarsi a quella cultura che dovrebbe definire la nostra “italianità”. Forse questo cripticismo rimanda alla dimensione del sogno (Finnegans Wake?). Ma verso la fine il narratore si risveglia, torna alla situazione reale (anche se non si capisce bene quale sia, tranne il fatto che è in macchina con un amico). Probabilmente è una sorta di occhiolino dell’autore a un suo conoscente, una situazione che hanno vissuto solo loro. Solamente è definitiva la citazione finale, “Tanto sarà di peso fondare l’italiana gente”, che, per coincidenza con lo studio, mi pare di aver capito: con un verso simile Virglilo chiude il proemio dell’Eneide, il poema fondante la romanità; con questa stessa formula l’autore ribadisce questa necessità, non più rivolta a un passato mitico (Virgilio usa il passato), ma a un futuro incerto, dove l’Italia dovrà far a meno dei presupposti ideologici che le venivano dalla letteratura, ora che la letteratura si è esaurita e ha espresso quanto poteva esprimere.
Molto ben scritto
Particolarmente ammirevole è la conciliazione tra stile lessicale e contenuto. Chi meglio di un adolescente può parlare di altri adolescenti?
Forse non ho la testa per capire fino in fondo il testo, però a momenti mi sembra una specie di circo di stereotipi e pregiudizi, di quello che gli stranieri pensano di noi e noi di loro