07/2015. Il sapore della vita

Mi trema un po’ la mano mentre scrivo; alzo leggermente il capo e guardo i miei compagni: c’è chi scrive, chi si guarda attorno in cerca di un’ispirazione o chi sembra in attesa di un intervento divino. E poi ci sono io.

Quando ho letto la traccia del tema dataci dal professore mi sono subito abbattuta: “Il cibo nella quotidianità. Quanto è importante per l’uomo il rapporto che ha con l’alimentazione? Esistono varie sfaccettature del modo in cui le persone si relazionano con il cibo? Rifletti e argomenta esaustivamente, basandoti anche su esperienze personali.”

Subito mi sono detta “no, questo proprio no” e ho iniziato a provare una sorta di disagio ma ora ho deciso di basare il mio tema su una storia. La mia storia.  Professore, ci sono ragazzi, ma anche adulti, come me. Per chi è come me il cibo è un incubo. Già, un incubo che ti perseguita e influenza ogni aspetto della tua vita. Chi è come me viene definito malato.

Quando ero una bambina mi piaceva mangiare: amavo i dolci, la pizza e tutto ciò che può piacere ad una normale bimba. Quando frequentavo le elementari non ho avuto problemi: ero ancora troppo piccola perché dessi importanza alla mia immagine e comunque sapevo di non essere grassa. Quando ero a casa spesso volevo aiutare mia mamma a preparare i piatti che avrebbe servito, a scuola ero un po’ schizzinosa nei confronti delle verdure, come ogni bambino. Ero sempre di buonumore, avevo molti amici, una famiglia che mi amava e mi sentivo felice e fortunata, ed è stato così anche nei primi due anni delle medie; stavo crescendo, circondata da persone che mi volevano bene. Mangiavo regolarmente, né troppo né poco, mi piaceva tutto e non mi sentivo affatto in colpa nell’addentare dolci o cibi “sostanziosi”: mi piacevo, in poche parole.

Inizia la terza media e ormai sono quasi un’adolescente. Non so cosa mi abbia portato a pensarlo, ma ad un tratto ho iniziato a sentirmi inadeguata, del mio corpo vedevo solo i difetti. Le mie gambe? Troppo grosse. Il mio fisico? Troppo grasso. Ed ora, ecco che arriviamo al cibo. Ho iniziato a dimezzare le dosi, a scartare ciò che non era molto sano, dolci, fritti e cibi “pesanti”. Non mangiavo più all’intervallo della scuola a metà mattina e nemmeno alle quattro del pomeriggio. Stavo cambiando e me ne accorgevo: i vestiti cominciavano a starmi larghi.

È arrivato l’inverno e il freddo: un freddo che mi gelava le ossa, che mi toglieva le forze e intanto diventavo sempre più esile. Anche il mio carattere stava cambiando: la ragazza allegra e amichevole si stava trasformando in una persona fredda, taciturna, lunatica e il sorriso spariva dal mio volto ogni giorno di più; mi isolavo a scuola e i rapporti con i miei compagni stavano diventando sempre più serrati, tanto che non avevo più alcun desiderio di andare a lezione, alzarmi diventava sempre più difficile e sembrava che il tempo non passasse mai. Pensavo sempre al cibo, a cosa avrei mangiato una volta arrivata a casa, se ciò che era stato preparato mi avrebbe fatto male: il cibo era diventata la mia ossessione, aveva condizionato la mia vita.

Per riempire il vuoto lasciato dall’alimentazione ho iniziato a studiare, perche volevo mostrare che anche io contavo qualcosa, non volevo deludere i miei genitori, sapevo di star facendo del male a loro, e poi leggevo: volevo vivere in un mondo a parte, dove sapevo che avrei potuto rifugiarmi e dove, forse, avrei avuto l’opportunità di essere felice; i libri erano un modo per fuggire dalla realtà. Intanto ero diventata magrissima, riuscivo addirittura ad indossare gli indumenti che portavo in prima media e in quinta elementare. Cercavo di stare sempre più vicina ai miei genitori, perché ero consapevole che avevo reso la loro vita un calvario, anche loro avevano sulle spalle il peso della mia stessa croce e sapevo che nel vedermi sempre più minuta reprimevano a stento le lacrime.

Si stava avvicinando la fine della scuola e gli esami e io studiavo con determinazione anche se il mio corpo urlava: sprecavo troppe energie, più di quelle che assumevo tramite il cibo. Ormai ero arrivata allo stremo. Un pomeriggio ero seduta in giardino a leggere, ma non riuscivo a concentrarmi sulle parole del libro, così lo chiusi. La sera prima, scorrendo i canali della TV, mi fermai su un programma che stava parlando di disturbi alimentari e raccontava la storia di una ragazza poco più grande di me che la settimana prima era morta mentre andava a scuola: il suo cuore non aveva più energie. Mentre stavo riflettendo su ciò che avevo visto, mi accorsi che dal terrazzo mi stavano guardando i miei genitori e in quel momento mi scese una lacrima. Mi stavo spegnendo sempre di più e stavo facendo del male anche a loro e mi chiesi come sarebbe stata la loro vita se al posto di quella ragazza me ne fossi andata io: ero un fiore che stava appassendo e che stava perdendo ogni petalo.

Non potevo fare questo, né a loro né a chi mi amava. Lasciai il mio libro e corsi ad abbracciarli: era un abbraccio che esprimeva più di mille parole. Quella sera provai ad aiutare mia mamma a cucinare e, dopo attimi di titubanza, vinsi la mia paura e addentai una pesca; forse per gli altri era una cosa da nulla, ma per me era un passo da gigante. Professore, la ragazza che ora sta scrivendo è cresciuta. Probabilmente la sua vita resterà segnata e condizionata da questa esperienza che l’ha colpita nel fiore degli anni, ma ora sorride. E mi creda se le dico che quel sorriso ha il sapore della felicità: ora può dire di avercela fatta, e questa è una vittoria. Ora quella ragazza sta tornando a vivere i suoi sogni. E la sua vita.

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