08/2015. I lamponi di Drago, Ivan e Marja

Al di là dell’azzurro, tra cielo e mare, esiste una terra bagnata di rosso.

In questo modo appare la Bosnia Erzegovina all’arrivo con la nave.

Vi sono stata tante volte, cinque, sei, forse sette, ma nemmeno pensandoci intensamente ricordo il numero preciso.

Sono andata in aereo, in pullman, una volta perfino in macchina, ma la via migliore per arrivarci è correre sull’acqua con le grandi navi bianche.

Si parte da Ancona, si arriva a Sarajevo, anche se a Sarajevo non c’è il mare.

La città che si vede sulla costa dal ponte della nave è Spalato, quella che in Croato si chiama Split, come il verbo inglese che significa dividere, un nome che calza a pennello, perché in quei centocinquanta kilometri che ti separano dal confine capisci come due terre vicine appartengano a mondi tanto distanti.

Dopo una faticosa partita a scacchi con la polizia di confine riesci a passare la frontiera, ed eccoti  finalmente: nella terra dove senti ancora nell’aria l’odore della polvere da sparo, e nella voce del vento gli ordini dei generali, e nel cielo gli occhi di chi ha pianto.

Rimane ancora chi piange, non a Sarajevo, ma a Citluk, Surmanci e Mostar.

In quei luoghi dispersi la gente vive ancora nei campi, sulla terra rossa battuta, come se avesse assorbito il sangue versato dalla guerra, una ferita ancora aperta.

I Bosniaci non si chiamano così, si chiamano Croati, perché bosniaco vuol dire musulmano, sono grandi, alti, potenti come le cascate di Kravica, scuri di pelle come le notti in cui si urlava “Nessuno toccherà Sarajevo”.

Incutono timore solo dal nome, si chiamano tutti Drago, o Ivan, solo le donne ti danno conforto, loro almeno si chiamano Marja.

Spaventano, ma sono come i lamponi.

I ricordi più suggestivi che ho in Bosnia sono le corse nei campi cercando i lamponi, trovandoli anche di notte, perché diventano lampioni, sotto cieli di stelle che non conoscono luci artificiali.

Sono piccoli, spontanei, agglomerati di bollicine che non hanno intenzione di separarsi, come se si abbracciassero e il loro amore si trasformasse nel rosso e si liberasse in quel succo che colora le mani e il viso.

Appaiono agli occhi come piccoli cuori degli uomini, donne e bambini che la guerra si è portata via, il cuore di quei volti, ritratti nelle foto che abbellivano gli arbusti come vuole la tradizione.

Quando li mangi senti subito un sapore acidulo, ma diventa dolce poco a poco, e dimentichi presto quanto all’inizio il gusto sembrasse tanto pungente.

Continui a mangiarli, e ne vuoi sempre di più, sulle labbra provocano la stessa sensazione dei baci.

Continui a farne scendere in gola uno dopo l’altro, e quando hai finito osservando il viso e le dita intrise dal succo, provi una gioia che viene dal profondo.

I lamponi della Bosnia sono diversi dai nostri, perché mangiandoli scopri che sono come i Bosniaci, sembrano aspri e si chiamano Drago, ma quando stringi loro le mani, scopri che il loro nome tradotto significa “Caro”.

3 thoughts on “08/2015. I lamponi di Drago, Ivan e Marja

  1. Abitando sul confine della Slovenia ovviamente di riflesso conosco qualcosa della Bosnia anche se ho + amici in Croazia.Un raccondo molto bello ed emozionante x chi ha vissuto gli anni della guerra e loro sono riusciti ad alzarsi anche se non è facile

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