14/2015. Un po’ di polvere da sparo vicino al tovagliolo, Mr. Journalist

Appena m’affaccio dalla finestra della mia camera al tredicesimo piano dell’Intercontinental di Groznyj, è l’olfatto la prima vittima di quell’ibridazione di odori così immediata, violenta, bastarda: sono le corna d’Europa, Mr. Journalist, la Cecenia. Non ci scappi.

Qua la fragranza del Khachapuri appena sfornato nelle paninoteche georgiane si sbatte contro la polvere da sparo rimasta tra le crepe dell’asfalto, e la Baje, la famosa salsa di noci, si confonde con le lacrime che trasudano dalla niqab delle donne locali.

Mancano due ore all’intervista, più o meno. Esco e, contrariamente alle raccomandazioni che mi erano state fatte, mi avvio verso il centro della città. Non ho bisogno di sapere parlare il russo, tantomeno il ceceno, per capire cosa voglia dire questa città. A Napoli sono i molluschi della Rise a’Piscatora, a Madrid lo zafferano della Paella, a Karachi le spezie del Biryani. Qua  sono i piatti pesanti a dirti che serve energia per andare avanti, sono i piatti particolari che ti dicono che non sei in Russia. I profumi intensi e le spezie, reduci dell’incontro tra la cultura bizantina e quella araba, dell’est con l’ovest, del sole con la luna, non fanno solo da cornice, ma chiariscono i lineamenti dei bambini e addolciscono lo sguardo velato delle donne.

Entro in una locanda, dove dovrebbe iniziare l’intervista con un comandante delle milizie locali, un terrorista secondo molti, di nome Ramzan, da sempre in guerra con Mosca. S’avvicina il cameriere, sa dell’incontro e sa che sono occidentale, gli chiedo un  bicchiere di Kindzmareuli, un vino bianco caucasico, ma con un inglese sterile mi fa capire che la sharia non permette l’alcool, e mi porta un sorso d’acqua ferma . Dopo aver capito che sono italiano, m’accenna un Bongiuorno, anche se è l’alito fortemente segnato dall’aglio ad accogliermi. Non servirà l’interprete, Ramzan ha la madre italiana, di Reggio Emilia, che aveva conosciuto suo padre in un viaggio nell’Urss, barattando il suo parmigiano con formaggio fuso e un po’ d’amore.

Nell’attesa mi abbandono ancora una volta all’incontro con i particolari odori provenienti dalla cucina, che non sono più solamente un effluvio di odori contrastanti, ma acquisiscono sempre di più un carattere specifico. Come non puoi conoscere il Kaiserschmarren se non conosci un Tirolese, o un Kseksou se non hai mai avuto a che fare con un algerino, anche con la gastronomia cecena devo immedesimarmi sempre di più nel contesto.

Intanto apre la porta un ragazzotto sui venticinque o ventisei anni, ma profondamento segnato, non può essere che Ramzan. Infatti, scambiate due informazioni con il cameriere, s’avvicina alla mia tavola.

C’è anche un altro uomo che s’intrattiene con noi, probabilmente un suo commilitone, con un accento iranico e con il maglione che sapeva proprio di Monte Elbruz.

<< Buona sera, Mr.Journalist>>

<<Buona sera. Ramzan. Prima di accendere il registratore, posso sapere il nome dell’altro ragazzo?>>

I due si scambiano qualche parola, Ramzan deve tradurre e poi << Scriva Mohamed, si chiama Mohamed, almeno per lei>>.

Non insisto. La chiacchierata è vivace, a tratti Ramzan mostra tutto il suo lato scontroso mentre ci racconta la sua educazione, metà islamica e metà cristiana, metà zuppe caucasiche e metà tortellini in brodo,  almeno finché non ci portano un Kebab. No, non uno di quelli serviti in carta stagnola delle nostre stazioni, ma in un piatto vero e proprio, ben decorato: e il sapore è tutt’altro, non solo la carne, sicuramente più buona della nostra, ma perché è il cibo della loro quotidiana speranza. Si riempie infatti il suo animo, e pure quello di Mohamed, il suo amico, che fino ad ora è rimasto taciturno. La seconda parte dell’intervista, con la salsa kebab ancora ancorata al nostro palato, è molto meglio.

Ad un certo punto Ramzan vuole mi dice di chiudere gli occhi. Io, con un attimo di esitazione, abbasso le palpebre. Lui tira fuori dallo zainetto, almeno così pare, una pietanza avvolta con un po’ di carta, e svelata me la fa assaggiare.

<<Cos’è secondo lei?” >>mi chiede.

<<Beh, pizza”>> rispondo istintivamente.

<< Vede, Mr Journalist, la differenza tra un terrorista e un combattente per la pace è sottile. Lei ora è convinta di avere assaggiato una fetta di pizza: invece ha appena mangiato del Khachapuri. Sa perché ha pensato subito alla pizza? Perché è conosciuta dappertutto, è presentata come il simbolo del cibo popolare, a poco prezzo, che con la sua semplicità sfida il piatto raffinato, aristocratico, del sistema: farina, acqua, olio di oliva, mozzarella.  Pensa, gli stessi ingredienti del Khachapuri. Solo che il Khachapuri è scomodo, forse perché pretende troppo e lo vuole ora. Allora tutti scrivono che la pizza non ha nulla a che fare con il Khachapuri e iniziano ad andare in giro con magliette raffiguranti una fetta di Margherita.

Bene, come può aver capito, per tutto il mondo noi siamo il Khachapuri, anche se siamo fatti degli stessi ingredienti della pizza. Curioso, no?>>

Sì, in effetti era curioso, ma la pizza non ha mai ammazzato nessuno.

<< Lei, Mr Journalist, viene dal Paese della Resistenza, forse anche i suoi nonni ne presero parte… Beh, allora sa come loro, che se ne stavano per mesi sulle Alpi, sognavano solamente di poter tornare a casa e mangiare liberamente un po’ di cassoeula o casoncelli, senza il fucile puntato sul piatto… Anche noi speriamo che un giorno possiamo smettere di mangiare con la polvere da sparo vicino al tovagliolo, capisce? Spesso la fame è il condimento del cibo, forse l’ha detto qualcuno…>> Cicerone, puntualizzo, e lascio continuare <<Sì vero, Cicerone.. ecco io aggiungerei che la libertà è il suo contorno>>

Capivo, sì.

Interviene finalmente anche Mohamed, il suo compagno di battaglia, tradotto da Ramzan.

<<Mr.Journalist, io vengo dall’Iran- come sospettavo dall’inizio, dopo tutto- e mi sono recato qua per aiutare i miei fratelli ceceni. Ora, probabilmente anche lei sa come è dura stare lontano da casa, per questo.. guardi qua- e tirò fuori dalla tasca che sta sul petto della sua sporca polo un sacchettino contenenti alcune spezie iraniche- Queste me le sono portate da casa, fanno parte dell’Advieh, un mix di spezie locali.. Ecco, a volte mi aiutano ad andare avanti. Dopo tutto, la propria terra natìa spesso sta dove batte il cuore, e così ho deciso di portarmi sempre con me un po’ di Advieh vicino al cuore>>

Emozionante, anche se io non avevo intenzione di giustificare niente e nessuno, solo di raccontare una storia, quella del Khachapuri e dell’Advieh.

Ci portano il caffè. “Questo però, Ramzan, non è come il nostro. Qua non esiste rapporto che tenga”. Ramzan ride, mi sa che non lo faceva da un po’. Gli si vede un po’ dell’insalata incastrata nel sorriso. Fa nulla, penso, è un po’ come la polvere da sparo vicino al tovagliolo.

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