21. Sì

Il suono della campanella segna il termine della giornata. Uscendo saluto il professore.

-Ah, Serena, com’è andata la manifestazione l’altro giorno?

-Bene, devo dire.

-Mi sarebbe molto piaciuto venire, ma a volte sembrano proprio incollarmi alla sedia.

Alzo le spalle e noto le rughe marcate a lato degli occhi, da quando il mio professore ha cominciato a invecchiare?

-Ultimamente la vita non è una passeggiata.

Questa frase, semplice, innocua se detta a un amico, apre le porte di una voragine se detta ad uno sconosciuto o a qualcuno con cui non si dovrebbe parlare del personale.

-Vuole parlarne?

Rischio. Lui si toglie gli occhiali con una mano e sospira pesantemente.

-Sto divorziando.

Abbassa gli occhi guardandosi le mani. Lo guardo giocherellare con la fede; le spalle s’incurvano e per un momento sento che si sta chiudendo a bozzolo lasciandomi fuori.

-Posso fare qualcosa?

Lui scuote il capo.

-Domani andrò a una conferenza sull’America Latina, qualcosa di molto interessante, mi farebbe piacerebbe ci fossi anche tu.

-Farò il possibile.

Esco.

Sta divorziando, mi ripeto nella mente.

Sono quasi fuori dall’edificio: è possibile che una volta uscita non m’importerà più nulla. Non ci vuole molto: basta fermarsi e togliersi quella semplice ed enorme confessione. Sono così frustrata che potrei urlare. Ma non lo faccio. Al contrario giro su me stessa e mi dirigo in segreteria.

Quando esco dall’istituto, ho tra le mani un foglietto di carta e un indirizzo.

Davanti a me si estende una villetta di un color pesca smorto. L’albero che vi sta vicino è stato da poco martoriato e il giardino è ricoperto dai segni dell’autunno.

Busso.

Mi apre una donna mora, alta e molto bella. Insomma, il mio professore aveva fatto centro, o quasi.

-Buongiorno, sono un’alunna di suo marito.

Sussulta.

-Lui non è qui.

Sento qualcosa nella sua voce, qualcosa che per un momento le impedisce di parlare.

-No, ecco, io sarei venuta per parlare con lei.

Ammetto abbassando il capo in un misto di vergogna e timidezza.

-Ah, entra.

Mi lascia passare e mi conduce in cucina, m’indica un posto a sedere.

La vedo un po’ a disagio.

-Lui non sa che sono qui.

Per un istante penso si sia rilassata, ma le spalle sono ancora chiuse sulla difensiva.

-Cosa ti serve?

Non la guardo negli occhi mentre le rispondo.

-Volevo sapere cosa era successo.

Sussurro la mia richiesta.

Lei sospira, ma non sembra annoiata dalla domanda.

-L’ho conosciuto all’università – comincia, sedendosi anche lei; le pentole borbottano per la mancata attenzione – era un ragazzo con delle idee fisse ed una forte posizione sociale, ribelle, anarchico: uomo di cultura. Mi stupiva con i suoi discorsi la sua determinazione, il suo furore.

Era destinato a guidare masse ed io volevo ascoltarlo sempre.

Irrequieta si alza e controlla le pentole: nulla di pronto, nulla di scotto.

-Con la laurea decidemmo di viaggiare, ci fidanzammo e dopo pochi mesi rimasi incinta.

Sospira, ma non accenna a continuare.

-Che cosa non ha funzionato?

Lei mi guarda per un attimo, poi torna a sedersi di fronte a me, seguo le sue mani notando l’anulare privo di fede.

-Se lo sapessi, non staremmo divorziando.

-Non è vero – la interrompo io – molte coppie si separano conscendo benissimo il problema. Hanno solo paura di provare a risolverlo. Di provarci davvero.

Lo sguardo diventa per un attimo furente, poi si rattrista.

-Ci ho provato, giuro che l’ho fatto, ma lui è cambiato: ha preferito prendere il volo, diventare un visionario, troppe parole per un solo uomo.

Abbasso il capo consapevole della verità che sta sputando fuori quella donna: il mio primo istinto era di addossare la colpa su di lei, ma l’amore si smonta e si fa in due.

A farlo da soli si parla di narcisismo. O masturbazione.

Mi ero sbagliata dal principio.

“L’ha mai amato?”

Mi rendo conto dell’inadeguatezza della domanda, ma poco m’importa.

Lei si perde nei suoi pensieri; i suoi occhi, da sotto la frangia, si appannano leggermente.

Poi si alza e si muove verso il soggiorno, senza dire nulla la seguo.

-Un giorno entra in casa con un grande sorriso. Credo ci fosse il sole. Sì, sì, c’era il sole. Mi chiese di avvicinarsi, poi si inginocchiò e mi chiese di sposarlo.

Parla come al vuoto, come se io non ci fossi. Ricorda quel momento con un lieve sorriso.

-L’ha mai amato?

Ripeto con cautela. Non si può lasciare qualcuno che si ama. Non si può perché vuol dire fare del male anche a se stessi.

Lei si ferma con le braccia a mezz’aria: nella stanza cala il silenzio e, soprattutto, il vuoto, la vacuità. Quella domanda sembra assalirla più della sua richiesta di matrimonio: un dubbio atroce che ancora adesso, in pieno divorzio, la lacera dal profondo.

Non voleva sposarlo, glielo leggo negli occhi, aveva mentito davanti a Dio per proteggere il futuro di suo figlio, della sua famiglia, nella speranza che il gagliardo uomo universitario conquistatore di masse non fosse solo un altro Don Chisciotte.

Non otterrò mai una risposta, perché una risposta non c’è: non esiste un parametro certo per giudicare le sue azioni. Ha sprecato il suo più importante e ora porta il suo fardello.

-Perché l’ha fatto?

-Pensavo fosse giusto.

La lascio nel suo tugurio ed esco. Poco dopo sento la chiave girare nella toppa: sono fuori dalla sua vita.

È l’amore che ci costruisce, è con l’amore di qualcuno che nasciamo, e così come ci ha creato ci distrugge e ci toglie tutto, se non rispettiamo le regole, se non restiamo onesti e sinceri.

L’indomani mi presento alla conferenza. L’uomo che parla sul palchetto della sala è alto e dai tratti andini, l’accento, però, non tradisce la provenienza.

Mi allontano per andare in bagno ed incontro il mio professore.

-Sta già andando via?

-Non proprio.

-Non le piace?

-Non mi piace quello che dice.

In fondo non è mai stato incline alle opinioni altrui.

Estrae un pacchetto di sigarette ed io lo accompagno all’uscita rispondendo muta alla sua silenziosa domanda.

Parliamo per il tempo di una sigaretta prima che io chieda:

-Perché sta divorziando?

Lui alza le spalle.

-Non so. Qualcosa non è andato.

-Crede che sia colpa sua?

Chiedo, come assillata dal bisogno di incolpare a qualcuno.

-Non è questione di colpa. Pensa a Clitemnestra la reputi la cattiva per l’uccisione di Agamennone?

Sono tentata di dire sì, poi no, poi rimango zitta.

-Però Agamennone uccise loro figlia. Allora era lui il cattivo, che, però, aveva agito così per suo fratello, che voleva andare a Troia per Elena, che era stata sedotta, e così via. Se i personaggi sono colpevoli di essere madri, fratelli, mariti, amanti e amati, allora la loro unica colpa è di essere umani.

Non si tratta di colpa.

Forse ho buttato il della mia vita, ma non lo rimpiango perché in quel momento ne ero dannatamente sicuro. È solo una questione di parole: fai attenzione a quelle che usi, perché non tornano indietro. Un assenso, o un dissenso, ti può cambiarti. Proteggi le parole, perché ora, che sei giovane, con quel fervore anarchico ormonale nello stomaco e quella tempesta di passioni, sogni, desideri nella tua testa, la parola è l’arma più potente che hai.

Rimango ferma, soppesando le sue parole.

-Quando vedi il tuo ragazzo, gli dici che lo ami?

-Come fa a sapere che ho un ragazzo?

-Te lo leggo negli occhi. Allora? Glielo dici che lo ami?

-Be’, no, non ancora.

-Dovresti.

Un’ora dopo giro sottobraccio con il mio ragazzo e ho smesso di parlare al divorzio del mio professore.

Lui mi chiede:

“Mi ami?”

E in quel preciso momento capisco la moglie del mio insegnante, perché è come quella proposta di matrimonio. I dubbi che l’avevano pervasa a dire quel fatidico che, in un momento non mi parve più il sprecato di una donna: era diventato il di una donna che voleva tentare e che, in quel momento, in quell’istante, amava l’uomo che aveva di fronte.

Ed io?

Non so se tra due anni, o un mese, o una settimana, saremo insieme; non sono nemmeno sicura che l’amerò l’istante successivo alla mia risposta, o quello precedente: non importa, perché la vita si fa di attimi e in questo, io sono sicura. Sicura com’era stata l’ex moglie del mio professore.

“Sì, ti amo.”

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