21/2015. Un’opera buona

Praga, 1590

Mastro Giuseppe correva frettolosamente su e giù per la piazza. Di quella città conosceva ancora pochi posti: il Castello, il Convento, la Porta delle Polveri che tanto gli metteva paura con quel suo volto scuro e tetro. Al momento, però, gli interessava solo sapere dove si trovasse la piazza del mercato. Per qualche giorno Giuseppe era riuscito a racimolare soltanto delle patate al Convento e a sottrarre un po’ di verdure dalla cucina del Palazzo, ma una guardia se ne era accorta e il maestro aveva dovuto abbandonare il bottino, il più abbondante di quei giorni.
Il mercato stava a poche centinaia di metri dal Castello, raggomitolato in un groviglio di stradine che lì si raccoglievano. Lo trovò dopo alcuni strafalcioni, pronunciati in una lingua ancora sconosciuta e parecchi minuti di camminata.
«La prima cosa di cui ho bisogno è un tavolo!» ripeteva tra sé e sé, mentre si aggirava tra contadini e artigiani urlanti che invitavano a comprare. Le dimensioni non importavano, sperava di trovarlo in ciliegio, il suo legno preferito, ma si sarebbe anche accontentato di altro. Infatti, il suo apprendista, Filippo, maldestro com’era, avrebbe presto finito per rovesciarci sopra dell’olio.
«Giusto, anche l’olio mi serve – aggiunse – di qualsiasi tipo mi andrà bene, l’importante è che riesca a tenere uniti i sapori degli altri ingredienti.»
La campana della Chiesa suggerì a Giuseppe che sarebbe stato meglio affrettarsi. Era suonata tre volte da quando il maestro si era addentrato nella folla del mercato. Per fortuna, era riuscito a procurarsi un piccolo tavolo in noce e l’olio, ma sarebbe tornato nel pomeriggio a prendere frutta e verdura. Con lo stomaco ancora lamentoso, il tavolo sotto un braccio e l’olio nell’altra mano si diresse a grande velocità verso il Castello, dove riuscì a rubare altre due mele dalle cucine. «Maestro, finalmente siete arrivato!» disse l’apprendista correndogli incontro, lasciando emergere una certa delusione dal volto quando notò che Giuseppe non portava una cesta con del cibo.
«È davvero troppo tardi, come faremo anche oggi senza frutta e verdura?»
Sembrava preoccupato, come se dovesse essere punito perché il suo maestro non si era procurato le vivande necessarie.
Tuttavia, Giuseppe seppe confortarlo a dovere, la frutta sarebbe andato a comprarla nel pomeriggio, era già d’accordo con Rodolfo sulla scadenza del compito.
Così più tardi, dopo aver discusso con Filippo nel misero scantinato del Castello in cui erano costretti a vivere, Giuseppe si recò con il compagno al mercato.
«La lista! Avanti Filippo, dimmi cosa c’è scritto sulla lista» disse Giuseppe all’apprendista con un tono che nascondeva eccitazione e nervosismo. Ma l’euforia era tale da fargli dimenticare l’analfabetismo del giovane compagno. Appena Filippo glielo ricordò, il maestro gli strappò il foglietto dalle mani e iniziò a recitare: «Uva, in gran quantità! Due mele, rigorosamente rosse, alcuni piselli, due pesche, ciliegie, zucchine, un po’ di lattuga, due zucche, carote, sette pere, cipolle, una pannocchia, spighe…»
«Spighe? Maestro, io le spighe non le mangio, e penso che neanche Rodolfo le gradisca!» lo interruppe Filippo.
«Sono io il grande maestro milanese o te, Filippo? Lasciami fare!» gli rispose scontroso Giuseppe. Si procurò anche alcuni fiori, di diverso colore e differente specie e delle bacche, sempre utili per dare colore alla tavola.
«I peperoncini, non dobbiamo dimenticarli!»

La spesa del pomeriggio fu più impegnativa di quella mattiniera e Giuseppe dovette farsi aiutare da altri due uomini per portare al Castello tutto quel ben di Dio. Quando giunsero a quella che da alcuni giorni chiamavano ‘casa’ era ormai sera e si sentivano le monache intonare i vespri. Avrebbero iniziato il lavoro l’indomani mattina.
Trascorsa la notte in due brandine sgangherate fatte di un legno che a Giuseppe sembrava marcio, all’alba, il maestro e Filippo si misero all’opera.
«Predisponiamo la tavola, è la prima cosa a cui pensare!» disse Giuseppe, con l’eccitazione che aveva accompagnato la spesa del giorno precedente.
Filippo corse ad aiutarlo. Il maestro prese la frutta e iniziò a disporla. L’uva venne collocata ‘in testa’ alla tavola. I carciofi, la lattuga e le altre “verdi delizie”, come era solito chiamarle Giuseppe, costituivano il possente tronco. La pannocchia era posta sul lato destro della tavola e pareva un grosso orecchio, una pera rossa ne occupava il posto centrale, come fosse il naso del contadino ubriaco che aveva venduto all’artista le spighe. Queste erano sparse qui e là, a decorare la composizione, mentre i fiori, posti sopra la verdura, conferivano colore alle zucche e alle carote ancora acerbe. I piselli erano di una rara qualità, piccoli ma di un colore molto intenso, ricordavano le folte sopracciglia di Rodolfo, le cui guance erano molto simili alle pesche selezionate da Giuseppe. La tovaglia scelta era nera, un colore triste, che non piaceva a Filippo, ma che avrebbe messo in risalto la lucentezza degli ortaggi.
«Vertumno, Vertumno» continuava a mormorare il maestro con un filo di voce.
«Giuseppe, cosa state dicendo? Non l’avete ancora imparato? Qui a Praga verdura si dice ‘gemṻse’!» annunciò Filippo. Per la prima volta conosceva qualcosa che il maestro ignorava. Tuttavia, non era quello il significato delle parole di Giuseppe.
L’opera era finalmente conclusa, consegnarla era l’ultimo compito. Per la prima volta Giuseppe e l’apprendista percorsero i maestosi corridoi del palazzo, scortati da almeno dieci guardie.
«La prudenza non è mai troppa», spesso il maestro aveva così ammonito Filippo.
Quando giunsero davanti all’immensa porta dorata che avrebbe permesso loro l’accesso alla sala del trono, i due trepidavano dall’eccitazione.
«Davanti al cospetto di Vostra Maestà, l’imperatore Rodolfo II d’Asburgo, si presentano mastro Giuseppe Arcimboldi e il suo apprendista, Filippo Campi» proclamò a gran voce una guardia, e il portone, come obbedendo agli ordini, si spalancò.
«Vostra maestà, sono lieto e onorato di annunciarle che il mio lavoro è concluso. Le presento “Ritratto dell’imperatore Rodolfo II come il dio Vertumno”, olio su tavola. L’opera più buona che sia mai uscita dalla mia bottega» trionfò orgoglioso Giuseppe.

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