24. Espiazione

Aveva lo sguardo perso, che andava oltre al paesaggio, che fluiva fuori dal vetro attraverso cui osservava.

Non spiccicava parola poiché i suoi muscoli erano immobilizzati forse dalla paura o dall’odio; tuttavia dai suoi occhi trapelava l’indecisione riguardo alla scelta che aveva intrapreso.

Aveva appena stravolto la sua vita ed ora guardava indietro per vedere cosa si stava lasciando alle spalle. Si chiedeva se fosse davvero il primo giorno del suo futuro e l’ultimo del suo passato o solo una fuga momentanea.

Questo motivetto mentale di dubbi sulla correttezza della sua decisione gli continuava a risuonare come una melodia che gli ricordava i canti di sua madre mentre ella si specchiava.

Preghiere, in realtà, invocate per colmare un vuoto verso un essere superiore, di cui dubitava l’esistenza stessa; ma nei momenti di disperazione ogni tentativo è lecito. Cercava di scovare sotto la sua pelle, al di là del suo corpo femminile, la sua vera essenza; ma non ci riusciva, vedeva le sue forme e nient’altro, niente di più e niente di meno, insignificanti, banali e univoche.

Questa era la sua vera condanna: non scorgere il suo vero “io” nell’osservazione della sua persona bensì un essere umano qualsiasi. Cosi ricadeva nell’omologazione; infatti mentre la sua bellezza stava sfiorendo non aveva capito che era il suo punto di partenza, la sua arma per trovare la sua identità. Ma il suo bambino, oltre ad essere una propagazione del corpo della madre, era anche una continuità del suo pensiero, anche se ormai più di vent’anni erano passati.

Il treno correva sui binari. Il rumore della pioggia che scivolava lungo le carrozze era quasi impercettibile eppure, per un momento, distolse il figlio di una madre insoddisfatta dai suoi pensieri per poi riprendere senza sosta, ancora e ancora, a trivellarsi con dubbi e perplessità. Non si sentiva capito da quelle persone che ogni mattina scendevano e risalivano frettolosamente da un autobus all’altro per non arrivare tardi sul posto di lavoro, per timbrare il cartellino; quelle che lavoravano otto ore per poi tornare a casa e dormire per la stanchezza. Si sentiva straniero nella sua città. Riteneva che ogni valore precedente fosse ormai labile e perso nel tempo: la famiglia superata, il patriottismo calpestato, il concetto di fratellanza sotterrato e la spiritualità inesistente.

Le gente dialogava ma parlava del nulla, del niente più assoluto, le loro parole non avevano consistenza. Erano discorsi cosi insignificanti che si potevano impiccare con il filo del proprio mouse.

Non si sentiva libero. Libero di scegliere un governo. Libero di dire no a quelli che lo governavano senza dovergli spiegare i come, i dove e i perché. Perché non poteva battere i pugni?

Stava in fila, con il passo serrato ad aspettare il suo pasto in mensa quando un suo collega gli aveva appoggiato la mano sulla spalla e aveva bofonchiato queste esatte parole: “Ma tu sei soddisfatto? Ti piace la tua vita? Sei felice?”.

La sua vita corrispondeva alle sue aspettative? Quello che faceva ogni giorno lo appagava? Maledire la sveglia quando suonava, uscire di casa tutto scontento, lavorare, nutrirsi, dormire, alzarsi, affaticarsi, mangiare mentre alla tele riecheggiavano i soliti motivetti: “Questo è indispensabile, lo devi assolutamente avere, ne necessiti, compralo, è il migliore sul mercato”. Una routine comune ma che per lui era diventata ormai insopportabile e insostenibile.

Tornato a casa aveva fatto le valigie, voleva scappare da quella Babilonia che lo opprimeva. Era convinto che l’unico posto fosse quello del suddito, da schiavo, messo prono che poteva restare a lucidare il trono oppure scappare. Tuttavia quando si cambia strada non si sa mai quella che si intraprende, il tempo dispensa quelle risposte che da soli non si troverebbero.

Sceso dal treno gli parve di essere in paradiso, aveva trovato il suo Zion. Fuori da ogni spazio e luogo, in un altra dimensione. Lontano dal dilagare della globalizzazione, dall’era del consumismo, dall’omologazione, da tutte le parole propinate al fine di farti diventare un consumatore e dall’individualismo. O almeno gli parve cosi.

La gente lo guardava male, non capiva il peso che dava quella strana inclinazione alle sue labbra: il sorriso. In seguito all’ottimismo iniziale si materializzò il realismo: non riusciva a trovare un impiego, non condivideva di nuovo la mentalità della gente, non comunicava. Era volontariamente un esole ma si riteneva ancora succube di una realtà senza etica. Si ritrovò sul bordo di un marciapiede con un cartello appoggiato sulle ginocchia, un bicchiere davanti a sé e degli abiti tutti stracciati a chiedere l’elemosina ma piuttosto che uniformarsi al sistema questo e altro. Ma chiedere l’elemosina al sistema stesso non era comunque farne parte?

Un uomo, che ricordava Patrick Bateman, alquanto inquietante per la verità, gli si avvicinò e gli ripetè quelle parole che nella sua mente risuonavano famigliari : “Ma tu sei soddisfatto? Ti piace la tua vita? Sei felice?”.

Balzò in piedi, raccolse le sue cose e scappò via; forse perché quella figura all’American Psycho gli incuteva timore o forse perché quell’esatta ripetizione delle parole di circa un anno prima gli risvegliarono un neurone che si era addormentato per qualche momento.

Il mondo occidentale tanto anelato dalla comune gente era davvero il luogo da cui stava fuggendo o era dentro di lui?

Non riusciva a correre via, lasciare tutto, cambiare vita per trovare un posto dove poteva essere accettato. Pian piano iniziò a ragionar, e a comprendere che quello da cui scappava era da sé stesso.

Allora la rivoluzione non doveva essere contro la società che lui considerava opprimente, liquida, falsa, ripugnante, priva di ogni valore bensì una ribellione personale, silenziosa nella quale doveva trovare il tempo per rischiare al fine di realizzare ciò che per lui era speciale ma che per gli altri era normale.

La svolta stava nel credere nei propri mezzi, nel chiedersi dove andava la sua vita. Doveva crescere e cambiare. Non era più sufficiente descrivere il mondo in cui viveva come Babilonia. Non poteva correre via da un paese all’altro per sempre. Doveva essere acqua. L’acqua si scava la strada anche attraverso la pietra, e quando è intrappolata l’acqua si crea un nuovo varco.

Non era più tempo di coprirsi il viso, di mascherare il proprio corpo, doveva lottare ora che finalmente l’essenza compariva davanti a quella specchiera.

Dov’era finito l’amore per se stessi?
Si chiede allo specchio. “Voglio scegliere la vita, interrompere quest’evasione!”
E da quel momento è un altro.

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