33/2016. Credevo che tutto il mondo fosse uguale

Non tutti hanno un motivo per emigrare, ma un emigrante desidera  trovar un luogo dove trascorrere la vita più serenamente che nel paese d’origine. E’ altresì vero che  nessuno ha piacere di trovarsi in un paese straniero, perché cambiare  usanze, abitudini,  amici è  una delle cose più “soffocanti” che si possano provare.

Un giorno papà decise di lasciare il Bangladesh, anche se non c’erano particolari problemi economici. Noi rimanemmo ancora là: avevo nove anni, non mi rendevo conto  di quello che stava  succedendo, però, sentendo la sua voce per telefono, capivo che ci mancava. Papà  rimase  un paio di anni in Germania, dopo si trasferì in Italia: poi chiese al resto della famiglia di raggiungerlo.

Io non sapevo ancora che cosa si intendeva per cambiamento di paese: avevo dodici anni e credevo che tutto il mondo fosse uguale. Il giorno in cui dovevamo partire fu molto faticoso, eravamo tutti occupati a fare qualcosa ed i parenti stavano intorno a noi come se li dovessimo lasciare per sempre: era la prima volta che eravamo così uniti. Non immaginavo proprio che sarei stato in Italia il giorno seguente ma ormai ero sull’ aereo che mi strappava al  paese dove non sapevo se sarei mai potuto tornare e mi portava verso un altro paese di cui non conoscevo praticamente nulla.

Arrivato in Italia mi trovai in un mondo tutto diverso dal mio: la verità è che mi sembrava di essere nato allora e di dover apprendere tutto come un neonato. Non capivo gli altri quando parlavano, non riuscivo a farmi capire dai miei coetanei ed ero obbligato a vestire in modo diverso dal mio solito. La mia famiglia aveva anche cambiato le abitudini alimentar i  perché  il nostro cibo non si trovava,  per lo meno in Sicilia, avevamo difficoltà a rispettare le nostre ricorrenze religiose perché non erano le stesse degli Italiani. Con cultura, lingua, religione diverse sicuramente si incontrano difficoltà solo che qualcuno riesce a superarle facilmente, altri, invece,  no.

Un giorno mi alzai e sentii qualcuno urlare nella piazza di fronte alla casetta dove abitavamo: fu una giornata memorabile per molti, ma soprattutto per  mio padre. Quel giorno  la piazza si riempì di gente in modo caotico, ma non era un giorno di festa, le persone non ridevano ma gridavano scalmanate slogan che riguardavano l’afflusso di  troppi clandestini in Italia. Mischiato tra i gruppi  che protestavano contro il razzismo c’era anche mio padre che fu fermato dalla polizia,  così  fu licenziato perdendo il lavoro in fabbrica con cui ci manteneva. Da quel giorno iniziò la nostra nuova odissea: la mamma fu licenziata, la mafia ci mangiò la casa, l’unica soluzione era quella di vivere in strada.  Mamma e papà  si ammalarono, per cui mio fratello ed io decidemmo di cercare un lavoretto per avere i soldi per le medicine. Io trovai un lavoro in una lavanderia,  mio fratello si mise a fare il lavavetri.  Ma eravamo  umiliati,  maltrattati, picchiati solo perché eravamo stranieri, e senza un soldo. Ci rimaneva soltanto il “dono” della speranza,  che ci avrebbe aiutato a vincere il mondo. Ma il periodo più buio doveva ancora venire: prima morì mia madre, poi mio padre. La vita per noi  divenne un inferno, l’inferno di quello che era rimasto della mia famiglia.

Qualche tempo dopo uno zio che a Roma gestiva un piccolo negozio di prodotti orientali ci fece trasferire da lui, si era accorto che non potevamo farcela da soli. Quando arrivammo, lo zio ci accolse a braccia aperte e ci disse che la strada più giusta da fare era quella di intraprendere gli studi per diventare “qualcuno” e  non fare la povera fine dei nostri genitori. Passarono gli anni, io e mio fratello studiammo, dopo le superiori l’università,  diventammo professori. Ora non avevamo più problemi economici, eravamo circondati da amici, avevamo imparato a vivere all’italiana ma ….. il nostro desiderio era quello di tornare in Bangladesh dove eravamo nati e dove avremmo ancora lottato  per la libertà.

Riuscirà questo racconto a realizzare la nostra speranza?

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