39/2015. Un bicchiere di ricordi

Nelle lenzuola il suo odore pungente sapeva di due mari: uno profondo di gorghi e violento di tempeste, l’altro spietato di ferro e macchiato di rosso.

Le dita lunghe e pallide accarezzarono il vuoto stropicciato accanto a lei. La donna, avida di ricordo, cercava di ghermire quelle tracce disperse per l’aria: le voleva stringere in un pugno, voleva cacciarle dalla sua casa. Per un anno aveva dormito accanto a quell’odore multiforme, che impregnava il suo giaciglio, ricordo graffiante del suo corpo. Strinse gli occhi per scacciare lacrime invadenti.

Si alzò e uscì. La sua figura si stagliava contro la luce che invadeva in correnti invisibili la sala da pranzo, mentre i capelli corvini erano accarezzati dalla flebile brezza sollevata dal mare. L’aria s’impigliava tra i ricci, i profumi s’intrecciavano. Ma quel profumo di mare non era il suo: era più delicato e più flebile.

Gettò lo sguardo e la memoria oltre il mare, a quel giorno in cui il vento soffiava più forte. Alla finestra, filava e cantava, mentre attendeva che i profumi di erba e di carne si mescolassero nella stanza. Un tiepido braciere crepitava sotto la pietra rovente e la legna si contorceva, mentre esalava il suo respiro caldo e si esauriva in un crepitare stridulo. Il vento portò dal mare odore di ferro e cenere e sudore: una vela bianca scivolò sulle onde e si nascose sotto la costa, dietro alle querce attorno alla sua casa. Per due giorni, la nave spezzata dalle burrasche attraversate rimase silenziosa, il suo odore trattenuto dalle tamerici che insinuavano le loro radici tra la sabbia fine della battigia.

Il giorno seguente uomini impauriti e sfiancati dal vigore del mare si spinsero fino alla sua dimora. Lei li accolse con i suoi maliziosi profumi, li fece sedere al suo tavolo. Offrì loro del cacio, farina d’orzo e miele. I loro occhi bramosi erano accecati dalla fame di un cibo che era stato per più di dieci anni solo un ricordo. L’aroma li stregò e se ne saziarono, incapaci di percepirne il sapore ingannevole.

Ma il loro piacere gli si ritorse contro e la loro sconsideratezza li rese dei porci.

Sentiva ancora le loro voci stupite e spaventate affievolirsi e rassomigliare sempre di più a grugniti, mentre il naso si deformava e cominciava a percepire il vero odore: odore di veleno. Li condusse con una verga nel porcile e tornò al telaio.

Poi lui venne e la chiamò.

Accolse quell’uomo, che profumava di mare profondo. Lo fece sedere su un trono ornato di borchie d’argento, mentre versava il vino in una coppa d’oro. Nessuno prese la coppa, nessuno bevve quel vino: l’uomo scampato ai gorghi profondi trasse la spada dal fianco e il sapore del ferro e dell’erba moly invasero la sua casa.

Era lui, l’accorto che doveva venire.

Lei si morse le labbra, lo sguardo di nuovo rivolto al mare e al presente. Le onde s’infrangevano sulla sabbia, orfane di navi, e il vento non portava altro debole odore se non quello del respiro placato dell’oceano, che non presagiva ritorno.

Il telaio taceva. L’ordito era immobile, paralizzato dalla dolce tossina della moly. Il trono argentato era occupato dal tiranno solitudine. I triclini erano coperti da un sottile velo di polvere, la coppa dorata svuotata del vino.

Cercava di nascondere il suo odore con quello della carne che cuoceva ogni giorno. Poi, lasciava che fossero le sue bestie a cibarsene, lasciava che il legno morisse sotto i tripodi e le pietre, schiacciato dal loro peso. Lasciava che fossero le fiamme a privare il legno di tutta la sua linfa, lasciava che fosse l’odore di cenere a ricoprire i tavoli e le sedie e i pavimenti. Sperava che la cenere potesse essere trasportata dalle correnti d’aria, e che lei, abbandonata sul letto, potesse cogliere lame di luce penetrare la fitta, profumata solitudine della sua casa e illuminare le miriadi di frammenti che danzavano per aria. Corpuscoli di cenere vorticavano e nascondevano l’odore dell’erba dalla nera radice.

Aveva smesso di cantare. Solo il silenzio l’aveva accompagnata, giorno per giorno. A labbra serrate, in un rito dedicato a un dio di nessuno, ripuliva la carne, e la avvolgeva con le erbe raccolte e bagnate, così che sprigionassero profumo che le potesse impregnare le mani. Sul fuoco sfrigolava il grasso bianco e le erbe si annerivano e si raggrinzivano: allora il loro secco profumo penetrava nelle narici e poteva finalmente sentire di nuovo.

Ma da tempo aveva smesso di dedicarsi con tutta quell’attenzione al suo rito. Strappava la carne, vi buttava sopra l’alloro, la gettava sul fuoco, si tormentava le mani mentre aspettava che la sua casa fosse invasa dall’odore nero di bruciato.

Sveglia nel pieno dell’abbraccio della notte, per il ticchettio insistente della pioggia, fissò il buio del soffitto sopra di lei. Dopo istanti interminabili, il ritmo delle gocce divenne una danza fragorosa dal ritmo indefinito. Allora si alzò e si coprì con le lenzuola, che davanti alla finestra riverberavano una pallida luce.

Davanti ai suoi occhi l’immensa distesa del mare, caleidoscopio di impercettibili increspature, rifletteva un cielo nuvoloso e incerto. Le lacrime di pioggia precipitavano e trascinavano con sé il velo di polvere steso sul bordo della finestra: così cancellavano ogni traccia della cenere e l’umido lavava via il doloroso profumo del mare insanguinato.

Guardava le gocce cadere sul mare e si sporgeva in avanti verso l’orizzonte nuvoloso. Ogni tanto, un fugace movimento di luce scuoteva quel grigio mare a rovescio, da cui l’acqua cadeva anziché raccogliersi.

Fu poi un trionfo di luce, sopraggiunse da dietro di lei l’aurora tingendo di un tenue colore il grigio che il cielo indossava. A poco a poco l’alba scostò quel mantello bagnato e la pioggia cessò.

Restava solo il mare, immobile distesa che ora rifletteva il cielo rosato, e l’aria tersa, priva di ogni aroma se non quello della rugiada e dell’acqua sulle foglie. Niente più odore di bruciato, solo questa traccia di un pianto dal cielo che aveva lavato il bruciore della polvere dei ricordi.

La dea inspirò a fondo l’aria umida e si passò le mani tra i capelli, per liberarli dalle ultime gocce di grigia pioggia, quindi prese la coppa d’oro. Poi, il vino.

Varcò la soglia così, scalza e avvolta nel candore delle lenzuola, mentre le bestie alzavano la testa e la osservavano meravigliate.

Quando la sabbia le solleticò i piedi, sorrise e si accorse di non aver smesso di farlo per tutto quel tempo. Camminò accanto alle tamerici, i cui timidi fiori si scrollavano di dosso l’acqua che appesantiva i loro petali.

Una luna rosata si specchiava sul mare placido. Dietro alla donna, le sfumature dell’alba s’insinuavano nel cielo, portando il calore e il secco del Levante.

Fragili onde lambivano le sue gambe, mentre lei, seduta, versava il vino. Alzò il calice e la luce rosata da dietro illuminò d’oro il suo contenuto.

Appoggiò le labbra e chiuse gli occhi: il profumo e il sapore del vino la scossero dal torpore insensibile dentro di lei.

Il vino scorreva dentro di lei e lei scorreva nel mare.

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