39/2017 Illusione

Possiamo saltare dall’altalena.

Possiamo ingoiare tutte queste caramelle.

Possiamo vivere in eterno.

Siamo liberi e il mondo è il nostro parco giochi.

 Questo gli dicevano le voci, o almeno, così avevano adescato il suo cuore di bambino ingenuo. Che importanza aveva se nessun altro pareva sentirle? Erano sue amiche, e avevano ragione, il mondo era suo; a chi potrebbe appartenere la libertà, se non a un bambino che salta in un mucchio di foglie?

L’aveva creduto davvero, mentre la luce del giorno illuminava il suo sorriso. Ma dopo 20 anni il sole si era oscurato e gli amici nella sua testa avevano smesso di volergli bene: le caramelle erano diventate pillole, l’altalena il cornicione del suo appartamento, e così i verdi alberi erano mutati nelle fredde pareti bianche dell’ospedale psichiatrico.

Rannicchiato nell’angolo, farfugliava alle voci di lasciarlo in pace; gli anni l’avevano consumato e non avevano lasciato altro che un’ombra terrorizzata dalla luce. Voleva dormire, ma come poteva se i suoi demoni non tacevano?

Persino a un uomo privato di ogni libertà resta ancora quella di pensare e trovare conforto nell’immaginazione; dove può scappare, invece, un individuo prigioniero nella sua stessa mente, trascinato in un incubo per esserne per sempre spettatore?

“Lo schizzato sta cantando di nuovo” commentò un’infermiera.

Sempre fermo nel suo angolo, il giovane pallido e magro aveva serrato i pugni e mugugnava una melodia tra sé e sé. Non era la prima volta che la donna assisteva a una scena simile; la madre del ragazzo le aveva spiegato che era solita metterlo a letto con quella canzone. Ignorava però che quel motivetto non lo aiutava a dormire, come nulla ormai, ma a concentrarsi: capitava a volte che lo distraesse dalle voci. In quei momenti, qualche ricordo gli affiorava alla mente. Semplici bagliori, una collina lontana, una girandola sfocata, subito oscurati dagli inquilini della sua testa; ma bastava poco per ricordargli che era stato felice, libero di correre, divertirsi, vivere, quando le sue possibilità di scelta andavano ben oltre la pillola con cui tentare il suicidio.

Non puoi liberarti di noi.

 L’infermiera sentì la nenia cessare bruscamente, e si allontanò lamentandosi del silenzio spettrale del reparto. Per un solo secondo di quello stesso silenzio il giovane avrebbe venduto la sua anima al Diavolo; ma  sospettava che l’inferno non potesse avere altra sede che la sua testa. Che pena avrebbero potuto infliggergli nell’altro mondo che lui non avesse già patito? La sofferenza, la disperazione, il dolore… sì, il suo dolore era ciò che desideravano, gli avrebbero fatto del male, l’avrebbero bruciato nell’oscurità eterna perché era quello che meritava un rifiuto come lui.

Non poteva continuare così, lo sapeva; accasciarsi a terra dopo intere notti insonni non era dormire, coprire le voci con cantilene, pianti e grida non era trovare la pace, e sbirciare la sua vecchia libertà dallo spiraglio nell’oscurità non era vivere. Se solo avesse avuto un’arma, una pistola ad esempio… il proiettile gli avrebbe trapassato la testa, le avrebbe zittite tutte per sempre; e lui sarebbe stato salvo. Però, magari…

Uno schianto. Poi un altro. Come una campana che risuona a morto in giorno di lutto. L’infermiera irruppe nella stanza accompagnata dal rumore del sesto rintocco, in tempo per fermare la testa del disperato dal colpire nuovamente il muro contro cui si stava lanciando con tanta foga. Cercò di divincolarsi dalla sua presa; stava cercando di vincere i suoi carcerieri, com’era possibile che lei non lo capisse? Doveva andare avanti, andare avanti. La giovane sentì cedere quello spettro di pelle e ossa, e lo guardò crollare a terra tra le lacrime. Era inutile. Era stanco. Aveva tentato troppo a lungo e ogni volta i suoi demoni diventavano più forti, lui invece più debole. Qual era il prezzo da pagare per trovare la pace?

La donna restò immobile per qualche secondo: una delle poche norme che le avevano spiegato il suo primo giorno in quel posto dimenticato da Dio era di non fidarsi di nessuno, mai. “Matti e nient’altro, sono qui dentro per essere allontanati dalla società”, questo le avevano detto; ma davanti a lei giaceva un’anima a pezzi, ed ebbe pietà.

C’era una grande vetrata nell’ala maggiore del quinto piano, una delle poche cose che rischiaravano i numeri sulle porte e le pareti incrostate; certo, non si apriva su un paesaggio panoramico, ma pensò che il semplice azzurro del cielo fosse un colore migliore del bianco opprimente che li circondava. Sarebbe stato il suo più grande rimpianto, ma non poteva saperlo; così lo fece rannicchiare vicino alla finestra.

Ti ha impedito di salvarti, uccidila.

 Ma poi sollevò lo sguardo e il sole fece luce sul bambino che pensava di possedere il mondo. Si arrampicò di nuovo sui rami del castagno; si sdraiò ancora sulla sua collina cercando le nuvole dalle forme più divertenti; e per l’ultima volta rivide il volo delle rondini. Voleva volare, quanto sarebbe stato felice, così alto nel cielo… avrebbe voluto solo provare… avrebbe voluto solo scappare con il loro stormo. Scappare? E dove pensi di andare? Ti seguiremo, fino alla morte.

Durò un secondo. Ma quell’attimo gli era bastato per trovare la risposta che cercava: sarebbe stato libero dove le voci non avrebbero più potuto raggiungerlo. Aveva costruito dentro di sé un luogo freddo e buio, ed era il momento di abbandonarlo.

“Ti piace?” lo interruppe l’infermiera.

Lentamente, faticosamente, annuì.

“Ti senti meglio?”

Annuì di nuovo.

“Grazie. Non è necessario che resti.” disse una voce così naturale da sembrare la sua, e non l’unisono di quelle che lo governavano.

“Tranquillo, rimarrò qui finché non sarai pronto a tornare al tuo reparto.”

Purtroppo l’aveva previsto; non avrebbe voluto, ma non c’era altra strada. Le saltò al collo e strinse.

Stringi. Continua.

Con ogni singola forza che gli era rimasta in corpo.

Uccidila.

Non questa volta. Non sarebbe più stato schiavo delle voci. In tutti quegli anni, era apparso come un vero essere umano agli occhi di una sola persona, ed erano quelli che stavano lentamente diventando opachi davanti a lui. Smise appena fu sicuro che la donna non fosse morta, ma che non sarebbe nemmeno rinvenuta in tempo per impedirgli di aprire la finestra e salire, un passo tremante dopo l’altro, sul cornicione. Era libero, libero di ribellarsi, libero di spezzare le catene. Non stava scappando: si stava ribellando. La sua scelta l’avrebbe salvato da quella sofferenza, e avrebbe trovato la pace nell’aldilà. Sorrise. Non lo faceva da anni, ma voleva andare incontro a Dio da uomo libero. Aveva passato tutta la vita a danzare con i suoi demoni, sull’orlo del baratro; era tempo di cadere e portarli con sé.

Posso saltare dalla finestra.

Posso decidere della mia vita.

Posso morire oggi.

Saltò.

Quarto piano.

Sarebbe andato tutto bene, stava tornando a casa. Aveva preso il controllo della sua vita con quel gesto, perché aveva il diritto di morire come voleva. Avrebbe incontrato il suo creatore in pace. Non più uno schiavo, non più un prigioniero. Era libero.

Terzo piano.

L’asfalto non gli era mai apparso così soffice, il mondo mai così silenzioso. Che le voci si fossero arrese nei suoi ultimi respiri? E a quel punto la vera, dura, tremenda realtà cominciò a delinearsi.

Secondo piano.

Non era forse quello che i suoi demoni avevano voluto, fin dall’inizio? Non gli avevano sussurrato di morire, ogni notte della sua prigionia? Lo capì; ma era troppo tardi. Non era libero. Era uno schiavo, lo schiavo della sua mente, per l’eternità.

Primo piano.

La sentì, dall’angolo più remoto della sua testa; sommessa, in un primo momento, poi sempre più chiara, distinta, forte e, al suo ultimo attimo, vittoriosa: una risata.

Poi, il buio.

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