56/2016. Scatti di routine

Mi risveglio nella mia stanza, rischiarata dalla luce verdastra che le impalcature ci concedono di ricevere dall’esterno. Avrebbero dovuto toglierle quattro mesi fa, se solo l’architetto non avesse abbandonato i lavori, alla prima difficoltà, lasciando noi condomini con una quantità inutile di piastrelle in più e ventimila euro in meno. Pazienza, ormai il bunker in cui viviamo ha sostituito il ricordo della nostra casa, e lo scheletro di ferro che sorregge il condominio cadente sembra proteggerci da una qualche minaccia invisibile, ma presente. Ci siamo abituati.

“Sveglia, sveglia, cari debosciati! Inizia con questo lunedì la 150° settimana decisiva per l’abolizione delle province!” Confondendosi tra un sorso di caffè e l’altro, la voce di Alessandro Milan legge e commenta i titoli dei grandi giornali in un modo, lasciatemi citare la frase cult del suo programma radiofonico, “che nessun altro al mondo li sa leggere”. Abilissimo, Milan passa ironicamente dalle primarie di Roma a Mafia Capitale, dalla legge per le unioni civili al figlio di Vendola: giusto in tempo per tergiversare pure sul deputato che per ripicca ha bucato le gomme all’auto d’un disabile che reclamava, a buon diritto, il suo parcheggio, e sono già alla fermata dell’autobus.

Una donna nera con il suo bambino aspetta insieme a me, come sempre: non conosco il suo nome, ne’ ho mai osato parlarle, ma ogni lunedì ci basta uno sguardo d’intesa per salutarci come compagni di viaggio. Da dove verrà? Quale pazza speranza l’avrà spinta a venire in Italia? Ripenso ai suoi fratelli, ammassati in cinquanta su un barcone da dieci. A Lampedusa ci arrivano solo in trenta: gli altri se li è tenuti il mare. I fortunati che non raggiungono le migliaia di loro compagni, che in questi anni affollano i fondali, finiscono in un centro d’accoglienza, per poi passarci più di un anno di snervante inerzia e scoprire, magari, che era gestito dalla mafia.

Guardo ancora la donna, cercando di scacciare l’immagine dei sacchi neri a forma d’uomo che hanno riempito e riempiono le nostre coste. Tiene in braccio il suo bambino, la faccia contorta in una buffa smorfia: sorride, ma gli occhi riflettono ricordi malinconici.

Che vergogna pensare che solo poche settimane fa controllavo istintivamente che timbrasse il biglietto, preparandomi a lanciare la stessa invettiva che avevo rivolto a un mio compagno di classe, anarchico per noia, dopo l’infantile: “che te ne frega del biglietto? La mattina non ci sono mai i controllori”. Abbiamo davvero bisogno di migliaia di leggi, clausole e cavilli, per ricordarci d’essere parte di una nazione civile.

Comunque lei, il biglietto, l’ha sempre timbrato.

Mi risveglio dai miei pensieri solo quando mi accorgo di aver perso la fermata, distrazione che mi costa venti minuti di ritardo a lezione. In prima ora tanto c’è storia, e mi perdo solo l’introduzione di un documentario di Piero Angela, che il prof pretende di farci passare come sua spiegazione.

Oggi solo l’assemblea di classe riesce a catturare la mia attenzione.

“Informare la classe di quanto discusso in consiglio d’istituto” recita diplomaticamente l’ordine del giorno segnato sul verbale, ma tutti sanno che dobbiamo parlare d’altro.

“Ragazzi, una volta, per necessità, ci può anche stare, in fondo a scuola si è sempre fatto. Ma vedere gente che continua a copiare da internet e prende voti più alti dei miei mi ha seriamente stancato.”

La bomba è stata sganciata: il suo scoppio ha lo stesso rumore di un vociare confuso.

“Ma perché, il professore si è lamentato in consiglio?”

“No, non hai capito, mi sto lamentando io.”

“Io non l’ho mai fatto…cos’è ‘sta storia…”“Questa è un’assemblea, non una caccia alla strega”

“A parte che dovremmo pensare alla nostra, di verifica. Se gli altri copiano, affari loro. A te mica cambia il voto.”

Giusto, in fondo una piccola azienda dovrebbe pensare solo ai suoi affari, e sapere che l’appalto se l’è aggiudicato un concorrente con una sostanziosa tangente al politicante di turno, non cambia nulla. Mica vieni rimborsato.

“Eh, certo! Adesso io rischio Settembre e non dovrei pensare a quelli che invece copiando hanno la sufficienza!”

“Ma se sei in difficoltà, cosa ti devo dire, copia anche tu. Nessuno te lo vieta.”

Nessuno, se non un minimo di morale, forse, ma è una cosa che si trova solo alla fine delle favole per bambini.

“Ok ragazzi, ma…dove vogliamo arrivare con questa discussione?”

“Non vorrete parlarne con il professore!”

“Sì, certo, così magari se la prende anche con quelli che non hanno mai copiato!”

Continuiamo a discutere a vuoto, in quella che sembra essere diventata una seduta parlamentare in miniatura. In classe indossiamo una felpa e dei jeans strappati, ma mi sembra di vederci in giacca e cravatta, in Senato, a sprofondare nelle nostre poltrone, disposti a tutto pur di mantenere i privilegi, ma non il Paese che ce li ha dati.

Ingarbugliati in un problema tanto semplice da sembrare irrisolvibile, riusciamo a chiudere la questione introducendone un’altra delle tante che abbiamo in repertorio.

L’ora finisce troppo in fretta e, senza neanche il tempo di firmare il verbale, la campanella annuncia la nostra libertà. Usciamo scambiandoci gli ultimi pettegolezzi e qualche battuta: l’assemblea è già cosa passata. Chiudendo per un attimo gli occhi, mi fermo davanti al cancello d’ingresso. Ripenso alla mia giornata, non ancora conclusa: centinaia di immagini si sovrappongono nei miei ricordi, rendendo confusi certi particolari e lasciandone nitidi altri. Non ho vissuto che un frammento dell’enorme puzzle che compone l’Italia, i suoi problemi, il suo cinismo, i suoi cittadini, le loro speranze, i sogni infranti e le bellezze che, spesso oscurate dalla confusione che la diffusa corruzione porta con sé, sono forse la vera anima di questo Paese. Se solo si riuscisse a metterle a fuoco, quelle bellezze, magari cambiando obiettivo, oppure ingaggiando un altro fotografo! Riapro gli occhi appena la mia immaginazione mi offre la visione di Renzi con una Reflex in mano, mentre Italia aspetta ferma, in posa: sono ancora davanti all’ingresso e un fiume di ragazzi ridenti mi investe. Eccomi, sono qui, uno studente anonimo, un minuscolo puntino di una foto in continua evoluzione: se si riuscisse ad ingrandirlo si vedrebbe che, nonostante tutto, sorride.

2 thoughts on “56/2016. Scatti di routine

  1. Le parti non si incastrano benissimo, e faticano un po’ a dialogare fra loro. Non mi è piaciuta poi troppo la rappresentazione stereotipata e da luoghi comuni dell’Italia.

  2. A me al contrario è sembrato un racconto dal forte spaccato autobiografico, scorrevole e interessante.
    Mi ha fatto riflette e vedere la realtà italiana attraverso gli occhi di un ragazzo.

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