58/2016. Noventa minutos

In televisione non c’era nulla che lo attirasse.

Stava facendo zapping tra i canali del digitale terrestre da un po’ di minuti ormai, e considerava noioso schiacciare lo stesso pulsante sul telecomando per più di un centinaio di volte.

Aveva scartato programmi che trattavano di politica perché lo facevano innervosire. Aveva dunque considerato programmi più soft, ma erano tutti dannatamente stupidi e non poteva credere che moltissima gente italiana guardasse ogni giorno simili stronzate. Disperato, si era infine rivolto ai canali che trasmettevano film ventiquattr’ore di fila, ma fu rammaricato dal fatto che proponessero pellicole che lui aveva già visto e rivisto troppe volte.

Spense il televisore chiedendosi perché esistessero centinaia di canali che trasmettevano tutti immondizia. Guardò l’ora e si ricordò che di lì a pochi minuti la nazionale di calcio italiana avrebbe giocato i quarti di finale degli Europei contro la Germania.

A lui il calcio non interessava, ma pensò che almeno sarebbe rimasto a vedersi qualcosa con tutta la famiglia e non avrebbe passato la serata in solitudine.

Andò in soggiorno. Suo padre e i suoi due fratelli erano già seduti sul divano e ciascuno teneva in mano una bottiglia di birra e una trombetta a gas; di lì a poco il suo tranquillo soggiorno si sarebbe trasformato in una tempesta di urla e insulti che sarebbero rimbalzati da parete in parete fino a devastare le sue orecchie. Si dichiarò non pronto psicologicamente, ma non ebbe altra scelta che sedersi con loro.

«Linka! Guardi la partita anche tu?». Il viso di suo padre s’illuminò nel vedere il figlio assistere a una partita di calcio insieme a lui e a tutta la famiglia.

Sua madre era seduta sulla zona del divano più lontana dal televisore e accarezzava dolcemente il capo di sua sorella Anju che era sdraiata sulle sue cosce.

«Ciao, Linka» disse sorridendo «Siediti pure qui».

Fece per alzarsi, ma il ragazzo le ordinò di rimanere lì dov’era e si sedette sul pavimento, di fianco al divano.

«Tutti zitti! Sta per cominciare!» la voce del fratello più grande dei tre, Andrea, tuonò così forte in quel piccolo soggiorno che costrinse tutti i membri della famiglia a rivolgere il loro sguardo verso il televisore.

Linka vide la palla bianca al centro del campo spostarsi lentamente e passare da un giocatore all’altro della formazione tedesca.

«Dai Bonucci, fermali!» l’altro fratello, Taib, sbraitava ordini ai giocatori italiani affinché spezzassero il ritmo di gioco degli avversari.

Linka era sul punto di dirgli che urlare non serviva a niente, visto che i giocatori non potevano sentirlo, ma decise di lasciarlo fare.

Tutti suoi fratelli erano stati adottati, ognuno da una nazione diversa: Andrea dall’Italia, Taib dal Marocco, Anju dall’India e lui dall’Argentina.

Sapeva che i suoi genitori adottivi, di nazionalità italiana, non potevano avere figli, ma ancora non ne sapeva il motivo. Stava di fatto che possedevano un buon patrimonio economico e la bontà necessari a provvedere alla loro salute senza problemi. Linka però, al contrario dei suoi fratelli, era da sempre portatore di un vuoto allo stomaco che non lo faceva sentire parte di quel mondo così maledettamente perfetto. Ciò gli procurava un enorme senso di vergogna quando si trovava davanti ai suoi genitori adottivi, poiché non riusciva ad amarli tanto quanto loro amavano lui e, ancora meno, amava l’Italia, di cui era certo non sarebbe mai stato un cittadino a tutti gli effetti.

Questo stato d’animo si rifletteva benissimo nel gioco del calcio. Infatti Linka non capiva perché ci dovessero essere discriminazioni tra i vari tifosi delle nazionali e soprattutto non sapeva perché i suoi fratelli tifassero la squadra italiana e non le squadre delle loro rispettive nazioni.

“Cosa vuol dire…”, si chiedeva, “…essere tifoso di una squadra nazionale?” e più se lo domandava, più la risposta gli sembrava fuori dalla sua portata.

I suoi pensieri furono bruscamente interrotti dalle urla dei membri della famiglia che stavano incitando un giocatore italiano ad andare in porta.

«Forza Immobile, corri! Hai tutto il campo di fronte a te!». Suo padre si era alzato dal divano occupando due terzi del televisore e anche Andrea e Taib erano visibilmente agitati.

Linka vide sopraggiungere un difensore tedesco a bloccare l’avanzata italiana, ma l’attaccante lo superò con un tackle che il telecronista definì “da manuale” e penetrò nell’area avversaria.

Il portiere tedesco lasciò la porta per dirigersi verso l’avversario, il quale effettuò un pallonetto che si rivelò troppo alto e superò la traversa.

«Ma come si fa? Non è possibile sbagliare un tiro del genere!» tuonò suo padre.

Linka ringraziò il cielo per aver impedito che suo padre buttasse la bottiglia di birra in terra.

Taib e Andrea si accasciarono sul divano scompostamente rilasciando tutta la tensione di qualche attimo prima.

Passarono i minuti e arrivò presto un’altra occasione per l’Italia. Il possessore del pallone era Stefano Okaka.

«Okaka?» chiese Linka, confuso «Siete sicuri che è italiano?».

Suo padre rise di gusto e gli fece cenno di sì.

«”Okaka” non è un cognome italiano. Perché gioca nella nazionale italiana?» continuò a domandare Linka.

«Si vede che non conosci il calcio!» esclamò divertito il padre «Non sai cosa vuol dire appartenere a una nazione?».

“No” pensò il ragazzo “Ma vorrei tanto saperlo”.

«Vedi…» continuò il padre «…Okaka è un ragazzo nato in Italia da genitori nigeriani, fuggiti dal loro paese natio. Quel calciatore dunque ha origini nigeriane, ma è cittadino italiano. Appartenere a una nazione non significa semplicemente stare all’interno di confini stabiliti dall’uomo. Essere italiani significa sentirsi accolti dalle persone che condividono i nostri spazi, sentirsi amati dal pezzo di terra sul quale abitiamo. Okaka, evidentemente, sente di essere amato dall’Italia e per ciò combatte per questa nazione. Il calcio non è uno scontro tra razze, ricordalo, è piuttosto un confronto tra uomini nati in luoghi e tempi diversi. Qui sta la differenza tra quello che pensi tu e ciò che i giocatori dimostrano in campo».

Linka trovò estremamente affascinante ciò che suo padre gli aveva appena raccontato e volle sapere di più su quello strano sport. Imparò quasi tutti i nomi dei giocatori in campo, avversari e non, e chiese ai fratelli le basi del regolamento calcistico.

La telecronaca della partita interruppe il discorso dei fratelli e invitò a osservare l’azione di gioco tedesca che aveva permesso agli attaccanti di entrare nell’area avversaria.

Linka vide una serie di rapidi passaggi, che favorirono l’inserimento di un giocatore tedesco e gli diedero la possibilità di calciare il pallone dritto verso la porta. Il portiere ebbe degli ottimi riflessi e riuscì a respingere il pallone.

Un giocatore italiano s’impossessò dunque del pallone ed effettuò un passaggio lungo per un suo compagno che si diresse subito verso la porta avversaria.

Il padre di Linka si alzò dal divano agitato e incitò i figli a fare lo stesso.

L’attaccante italiano nel frattempo si era spinto verso l’ala destra del campo ed era pronto a passarla ai compagni.

Linka ascoltò con attenzione le parole del telecronista: “Parolo è pronto a crossare! Il pallone entra in area per Florenzi che però non ci arriva: palla ancora in gioco! Sopraggiunge Immobile che effettua una finta e la mette al centro per Okaka! È solo davanti al portiere! Temporeggia! Tira in porta…”

«Goooooooool!».

Tutta la famiglia si alzò in piedi e urlò a squarciagola per parecchi secondi.

Andrea e Taib si strinsero al padre in un abbraccio mentre Linka non smetteva di battere le mani con un sorriso rivolto alla madre.

Il ragazzo realizzò in quel momento che il calcio non univa solo i popoli, ma anche i cuori dei famigliari e si sentì fiero di essere parte di quella famiglia che lo aveva accolto senza troppi problemi.

Con le lacrime agli occhi, si diresse verso il padre e lo abbracciò, poi andò dalla madre e le baciò la fronte.

«Vi voglio bene» disse «E sono fiero di essere italiano».

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