83. Viaggio immobile

Sono qui. Con in mano un biglietto del treno e davanti un paio di rotaie vuote.

Non so dove sto andando, voglio soltanto andare. Perchè andare è il verbo giusto in questo momento, l’unico che si possa equiparare al vivere. Percorrere un sentiero, senza avere una meta, senza avere un orario, persone da incontrare alla stazione, valigie pesanti da trasportare. Senza sapere dove si sta andando. Solo io, e una strada, qualcosa da lasciarmi alle spalle. Niente davanti. Andare, vivere.

Non so bene cosa farò, la mia mente ha deciso che non ci vuole pensare, credo che sia troppo annoiata per farlo, o forse soltanto così cauta da allontanare il dolore.

Sollevo lo sguardo proprio mentre un puntino in lontananza prende le sembianze di un treno.

Rallenta, si ferma. Non mi interessa dov’è il suo capolinea, è lì che scenderò.

E poi andrò da qualche parte a risolvere questa cosa, e non ci penserò mai più.

Salgo in fretta, senza indugiare, e cerco subito uno scompartimento, tagliando la strada a molti giovani ben vestiti probabilmente in ritardo per il lavoro, visti gli sbuffi e le imprecazioni che circolano nell’aria. Le osservo: sono persone con uno scopo, il cui viaggio ha una meta. Non riesco a decidere se è più liberatorio il loro viaggio o il mio.

L’imbottitura del sedile è completamente lacerata e piena di scritte incomprensibili e graffiti e promesse d’amore probabilmente dimenticate. Mia madre direbbe con disprezzo che sono gesti incivili. A me piace leggere la storia della gente scritta con le loro mani. Guardo fuori la banchina della stazione, ancora ferma. Vorrei non essere mai partita. Vorrei non essermi mai imbarcata in questa cosa più grande di me. Non si sente ancora niente, dentro di me, ma è come se avessi già un peso enorme nella mia pancia, piombo che mi trascina in basso facendomi arrancare. Non voglio dividere il mio corpo con nessuno. Non lo voglio, qualunque cosa sia, qualunque aspetto avrà, non è parte di me. E non lo sarà mai.

Con vari cigolii la porta dello scompartimento si apre, un uomo anziano si appoggia ai sedili ed entra zoppicando a fatica. Lentamente si siede di fronte a me, noto che non possiede alcun bastone.

- Posso, signorina?

La domanda mi sembra abbastanza inutile visto che ha già preso posto. Spero subito che non sia uno di quei vecchi che parla per ore delle sue memorie a chiunque abbia la buona educazione di stare in ascolto. Il vecchio sospira sereno e guarda fuori dal finestrino, il treno si mette in movimento.

- Lei dove scende?

Mi pento subito di non essermi portata dietro un libro perchè non ho voglia di parlare. Voglio stare da sola, per quanto mi è possibile nella mia condizione.

- Alla fine.

- Io sto andando da mia moglie. E’ morta, sa. E’ al cimitero. La mia casa me l’hanno portata via, e la casa di riposo è fuori dalla città. – la sua voce non ha traccia di nostalgia o tristezza. Quando vede che non do segni vita, continua senza sosta. – E’ morta giovane mia moglie aveva solo settantacinque anni diceva sempre che senza di lei non sarei riuscito a campare per più di una settimana beh aveva ragione due giorni dopo ho incendiato la coda del gatto ma sfortunatamente la vicina mi ha visto dalla finestra del soggiorno e ha pensato che l’avessi fatto apposta perciò mi ha fatto rinchiudere in un sanatorio. Quella strega – conclude, riprendendo fiato.

La strada scivola sotto di noi, il grigio della città mi deprime ancora di più, la gente è chiusa in macchine indifferenti che lasciano dietro di sé solo una gran nube di smog.

- Abiti molto lontano da qui?

- Sì. – replico seccamente.

Il vecchio mi guarda, l’espressione serena sul suo volto grinzoso si attenua. Dopo qualche secondo abbassa gli occhi sul mio ventre, stretto dalle mie braccia, forse capisce, ma non fa commenti.

- Serve fiducia, ragazza mia. – riprende, come se non mi avesse mai rivolto nessuna domanda – Al giorno d’oggi i giovani non sanno più cosa sia. Si limitano a subire gli eventi della loro vita, e la lasciano scappare senza inseguirla. Bisogna inseguire la propria vita, prendere le redini, andare dove tu vuoi andare. Troppo comodo lasciarsi prendere dal panico e lasciare che sia lei, sdegnosa, a trascinarti via dalla tua strada senza ritegno… mi segui?

Guardo fuori dal finestrino, il treno scorre veloce, il paesaggio non è più costellato di grattaceli e strade, è diventato campi, alberi spogli e muretti di pietra, la terra torna a respirare lontana dal cemento. Non sono abbastanza forte da non farmi prendere dal panico. Per una volta voglio andare dove mi porta la mia vita, lasciare libere le briglie. Tanto è la mia vita, non può portarmi da qualche parte che non sia parte di me. Forse. A meno che non mi porti via da me stessa… Forse è questo che intende il vecchio. La mia attenzione si focalizza sull’orizzonte oltre le montagne. Il cielo non si vede in città, ma qui si. Si vedono i campi e l’erba al vento. Non so dove sto andando, ma di sicuro deve essere molto meglio di quello che ho lasciato indietro. Il cielo sembra diventare sempre più luminoso ogni secondo che passa.

- Ricorda, non puoi pretendere da nessun viaggio che ti riporti da dove sei partita. Guarda me: ogni volta che…

Il blu del cielo è così accecante che mi costringe ad abbassare lo sguardo. Mi fanno un po’ male gli occhi, ma tutto sommato era interessante quello che stava dicendo l’uomo. Stavo perfino cominciando a capire.

- Cosa diceva a proposito di…?

Ma il vecchio non c’è più. Mi accorgo di non aver più davanti neanche il suo sedile.

C’è qualcosa di morbido sotto di me. Apro gli occhi. Insieme a una leggera penombra che si posa sui miei occhi affaticati dall’abbaglio, sento anche una punta di sollievo che diventa sempre più profonda. Sono a casa, nel mio letto. Era solo un sogno. Devo essermi addormentata con i vestiti addosso.  Sembra sera inoltrata, dalla tapparella abbassata filtra la luce aranciata dei lampioni che batte tranquilla sul pavimento. Mi metto seduta sul letto, e istintivamente mi porto una mano alla pancia. Non c’è più niente. Sono solo io, da sola, con me stessa e nessun altro. Il mio corpo è interamente mio. Sento qualcosa simile a un vaga sfumatura di tristezza. E nostalgia. Forse non era così terribile il mio sogno, dopotutto.

Mi riscuote un rumore di passi che corrono e una voce.

- Va tutto bene?

Chissà dove stava andando quel treno, qual era la meta, che cosa mi aspettava, una volta salita.

- Si, non ti preoccupare. Sto bene.

- Vieni a mangiare, mamma?

Probabilmente il capolinea era proprio qui, esattamente da dove ero partita. Ma adesso questo posto mi sembra tutto nuovo.

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