FC/2015. La betulla

“Nelle azzurre sere d’estate, me ne andrò per i sentieri, graffiato dagli steli, sfiorando l’erba nuova” Arthur Rimbaud.

I latini con la parola estate facevano riferimento al calore bruciante tipico di questa stagione, che ha inizio il giorno del solstizio, il 21 giugno.

É senza dubbio questa la stagione più attesa dai bambini, che, non appena termina l’ anno scolastico, si affrettano a scegliere i giochi più essenziali da portare al mare, racimolano le mance della nonna e ,con l’aiuto della mamma, riempiono la sacca per la spiaggia di rastrelli, palette, secchielli, formine, biglie… Ma la vacanza più bella non è solo quella trascorsa al mare.

Spruzzi di ricordi zampillano nella mia memoria e cercano di farsi spazio nella mia mente piena, sgomitando tra appuntamenti e impegni.

Da giugno ad agosto  la mia famiglia ed io trascorrevamo le vacanze estive in una casetta che avevamo in un paesino di montagna, piuttosto desolato e sperduto ma immerso nella natura.

Quando il sole si faceva alto in cielo gli oleandri emanavano un’essenza dolce e penetrante, mandorlata, un profumo che solo all’ora di pranzo si faceva così intenso e prepotente, quasi come se la pianta accaldata, sudando, emanasse tutto il suo profumo.

I grilli cominciavano a frinire e qualche volta sulle pietre esposte al sole si potevano scorgere delle piccole lucertole.

Non avevamo orologi al polso perché ancora non conoscevamo la fretta e l’unico segnale che ci avvertiva che era giunta l’ora di tornare a casa erano i piccoli mutamenti della natura. Un nodo allo stomaco ci accompagnava per tutto il tragitto del ritorno e                 l’ acquolina in bocca cominciava ad aumentare, e ad ogni passo fantasticavamo su cosa avremmo potuto e voluto trovare a tavola per pranzo.

Spingevamo le biciclette verso casa con la mia catena che strisciava per terra e una volta arrivati, le abbandonavamo in cortile sotto la betulla. Lì ci lasciavamo di tutto: biciclette, tricicli, palloni …

Sotto la betulla spesso pranzavamo e cenavamo, quando il tempo lo permetteva. La nonna sistemava il tavolo fin là e lo apparecchiava  con una tovaglia rossa , verde e bianca a quadri. Poi sistemava in un vaso i fiori che io e i miei cugini coglievamo nei prati vicino a casa il mattino e li poneva al centro del tavolo. Mi rendevo conto che non emanavano un vero e proprio profumo, anzi, odoravano di terra ed erba e fieno. Ma lei questo non ce l’ha mai fatto notare,  rallegrandosi del fatto che cercassimo in tutti modi di compiacerla e sedurla coi nostri mazzolini colorati.

L’aria ferma del  mezzogiorno era intrisa degli aromi del pranzo preparato  da mia madre che in cucina si cimentava a sperimentare nuovi piatti accostando sapori decisi con gusti più delicati.

Spesso snobbavo le sue novità e cercavo di sfuggire ai suoi inviti, ma alla fine la mia curiosità aveva sempre la meglio; ed è grazie a ciò  che ora conosco l’ armonia tra la pera dolce, succosa e zuccherina e il cioccolato fondente, amaro e asciutto.

Il gusto di una fetta di formaggio addolcita da un filo di miele, caramellato e denso, oppure l’ abbinamento perfetto tra pane burro e zucchero a merenda, quando la sensazione del grasso del burro veniva smorzata dallo zucchero e dal pane. Per colazione preparava per me e per i miei cugini, due piatti colmi di frutta colorata tagliata a pezzi e il divertimento stava nel riconoscere solo dal sapore quale  fosse il frutto che avevamo in bocca. Era molto difficile indovinare perché spesso capitava che un boccone asciutto e farinoso di banana, dopo essere stato a contatto con una pesca, diventasse più umido , dolce e zuccheroso. Le fettine di fragola venivano inasprite dagli spicchi di arancia e le albicocche inacidite da pezzi di kiwi.

E così cominciavamo a dare nuovi nomi ai frutti, pescbanana, aranfragola, kiwicocche e così via… Era molto divertente e la nostra capacità di trasformare ogni cosa in un gioco o in una gara non era indifferente.

All’ora di pranzo erano inevitabili le discussioni tra me e i miei cugini per decidere i posti a tavola: Matteo voleva sedere vicino a Paolo che voleva stare accanto a Greta la quale voleva restare all’ombra e accanto a me che preferivo spostarmi al sole. Ma se non riuscivamo a deciderci in pochi minuti, mia madre interveniva, e lasciandoci poco margine di polemica, ci assegnava lei i posti.

Ricordo che quell’estate la tavola di mezzogiorno sembrava ogni volta essere stata dipinta da un pittore bizzarro, intenzionato a colorare la sua tela con tutte le tempere a sua disposizione.

Mi tornano alla mente  le teglie di lasagne calde, filanti, croccanti sulla crosta, ricoperte dalla besciamella cremosa e delicata che, come in una danza, si lanciava e si lasciava travolgere dal gusto deciso del ragù al pomodoro. Portavo il boccone ancora bollente e fumante fino alla bocca, soffiavo per qualche secondo per poi, ingorda, affondare le labbra e i denti nella pasta ben cotta e gustosa.

Un boccone dopo l’altro placavano la mia fame ma non l’ appetito. Con il pane facevamo tutti la scarpetta, pulendo i piatti, spazzando via tutte le tracce della prima portata.  Nessuno estraneo ci stava ad osservare per cui , grandi e piccini , ci si sentiva autorizzati in quei frangenti a  a non osservare le regole del galateo.

Poi ci venivano serviti i pomodori, affettati e conditi, rossi, succosi, freschi, che emanavano un profumo intenso, dato dall’unione di olio, aceto e sale. Una fragranza che arrivava persino al commensale più lontano.  Spesso mia madre ci aggiungeva anche del sedano e delle noci amarognole, che insieme alla dolcezza del pomodoro creavano un’intensa armonia.

La nonna poi affettava il salame su un tagliere di legno e lo serviva sul piatto con una porzione di polenta calda e una fetta di formaggio:

profumava di latte e fieno. Lo acquistava presso la stalla in fondo alla via e spesso, io e i miei cugini, l’accompagnavamo per  poter vedere i vitellini appena nati. Capitava che Leone, il contadino, mi prendesse per mano e mi  invitasse ad avvicinarmi ad una mucca. Mi accovacciavo accanto a lui e facendomi guidare dalla sua mano esperta cominciavo a mungere.

Stringevo il capezzolo caldo e liscio tra le mie manine, e dopo averlo bloccato delicatamente, lo avvolgevo con tutta la mano, chiudendo le dita a ventaglio, dal mignolo all’indice. Dopo alcuni tentativi finalmente  il latte schizzava nel secchio davanti a me e sorridevo soddisfatta e compiaciuta. Quando Leone era particolarmente di buon umore, ci accompagnava nel laboratorio dove preparava il formaggio. Ricordo ancora il freddo che c’era in quella stanzetta ,impregnata dell’odore acido del caglio che si stava formando e  piena di pentoloni di alluminio stracolmi di latte caldo.

Due fette di salame e non di più, così diceva la mamma a tavola. Noi cugini afferravamo un paio di fette e srotolavamo la pelle che avevano attorno e, accompagnandolo con un bocconcino di pane, lo portavamo fino alla bocca. Bastava una sola fetta per condannarci alla sete per tutto il pomeriggio.

La polenta la facevamo sciogliere insieme al formaggio sulla lingua e sul palato sentivamo i granelli di farina. L’acqua fresca della fonte  lavava via dalla gola il pizzicore lasciato dal  salame e , sciacquandoci la bocca, cancellava i resti dei sapori del cibo  gustato.  Greta ed io eravamo le incaricate  al rifornimento giornaliero dell ‘acqua :  percorrendo una breve scaletta ci recavamo alla fontana dove, sporgendoci sull’ orlo della vasca,  riempivamo le bottiglie di plastica che c’ eravamo portate da casa.

A  volta ci andavamo persino la mattina presto  per sciacquarci il viso e lavarci i denti e,  con un mestolo di alluminio, ci dissetavamo. Sembrava neve, tanto era fredda, e i sorsi abbondanti ci gelavano la gola e i denti e la lingua.

Alle 18 in punto  il vecchio nonno Rino si sedeva sotto la betulla  dove, la moglie Rosanna  gli preparava  una cena frugale. Stanco, dopo un giorno di lavoro, si toglieva gli scarponi e si faceva rosicchiare i calzini e leccare i piedi dai suoi cani.  Spesso mi incaricava a  recarmi  in cantina a prendere una bottiglia di vino. Ogni volta che ci entravo un brivido mi percorreva la schiena  e ancora oggi non saprei dire se per colpa dell’umidità o per la paura del buio. Mi addentravo in quella tana che pareva essere stata scavata nella pietra da dei nani e a tastoni cercavo l’interruttore.

Salami appesi al soffitto parevamo delle stalattiti immobili sopra la mia testa e le bottiglie scure ed impolverate erano ordinatamente riposte sugli scaffali. Ne afferravo una, dal ripiano più basso, e me ne andavo. Senza rimanere un minuto di più.

Nella mia memoria è rimasto immutato il ricordo dell’odore della muffa dei formaggi e al solo pensiero di rientrare in quella cantina, sussulto.

La sacralità della domenica era scandita dal pranzo. Tutta la famiglia era riunita attorno al coniglio, lucido e croccante, che dominava la tavola sistemato in un’enorme padella di alluminio. Le patate arrosto dorate e cremose erano adagiate tutte intorno  e il rosmarino decorava l’intera portata aromatizzando il tutto. Il coniglio , rigorosamente nostrano allevato da mio nonno, veniva cucinato attentamente e lentamente, esaltandone il gusto in tutte le sue sfumature. Quando il vino rosso veniva versato nella pentola si sprigionavano  profumi più intensi e  avvolgenti che ancora oggi non fatico a ricordare. Su una stufa a legna mio padre  sistemava  un paiolo di rame e  faceva bollire l’acqua della fonte .  Cuoceva  per più di un’ora la polenta preparata con farina di mais macinata grossolanamente e che non ha nulla a che vedere con quelle precotte  che compriamo oggi al supermercato, “pronte in soli cinque minuti”. La mescolava adagio  con movimenti circolari e lenti, e a me ricordava tanto la gestualità  con cui il giostraio alla fiera prepara lo zucchero filato. Il sapore della polenta assorbiva il fumo e l’essenza della legna bruciata nella stufa. Così che quando l’ assaggiavamo, ci sembrava di  odorare il profumo della resina, e del tronco ricoperto di muschio umido.

Mio padre capiva che era finalmente cotta e pronta per essere versata sul tagliere  quando , ai bordi della pentola ,si formavano delle croste dorate, che  noi bambini, contendendocele ,andavamo a staccare una volta raffreddate.

Nel primo pomeriggio facevo i compiti insieme ai miei cuginetti all’ombra della betulla, in religioso silenzio, sotto l’occhio vigile di mia madre. Ognuno di noi doveva completare letture ed esercizi assegnati dalle maestre gli ultimi giorni di scuola. Capitava che dall’albero cadessero sui nostri quaderni piccoli bruchi verdi e gialli, o che il vento portasse via qualche foglio di minuta, o che il cane venisse a leccarci i piedi. Tutti pretesti per poterci distrarre. Quando l’attenzione calava la nonna se ne accorgeva  e allora correva in cucina a preparare fette di pane con la cioccolata e spremute d’arancia per poi appoggiarle , sorridente, sul tavolo.

Terminati i compiti correvamo a prendere le nostre biciclette e raggiungevamo gli altri bambini del paese nel piazzale, con i quali trascorrevamo il resto del pomeriggio in mezzo ai prati, tra i sentieri dei boschi fino a tarda sera.

La nostra meta preferita era la fattoria dietro alla collina. Già da lontano cominciavamo a sentire l’odore acre dei maiali e il puzzo del letame e il belare delle pecore. Avevamo quasi tutti paura del caprone nel recinto, dal quale stavamo alla larga. Ci divertivamo ad accarezzare la barbetta soffice delle caprette, e il loro mantello bianco e ispido. Il fetore dei maiali era quasi insopportabile ma ci limitavamo ad osservarli da lontano, sdraiati uno sopra l’altro, immobili e grassi. E ricordo bene che un po’ ci rattristavano.

Quando all’ora di cena rincasavamo, esausti, la nonna ci mandava tutti quanti a lavarci e poi di nuovo a tavola. Spesso per cena trovavamo piatti più leggeri, come riso e latte, o  del brodo che bevevamo con delle cannucce colorate, ancora pretesto di gioco.

Dopo cena, piano piano, la stanchezza prendeva il posto della nostra euforica energia e il silenzio sostituiva le chiacchiere e le grida di tutta una giornata.

Quando mio padre e i miei zii, tornavano dal lavoro, sorridevano vedendoci stremati e assonnati, e guardandoci negli occhi leggevano le avventure che avevamo vissuto durante la giornata.

In fila per lavarci i denti, con poche semplici parole, ricordavamo i momenti più divertenti che ci avevano fatto ridere insieme e sorridere, insieme. Matteo si grattava il polpaccio nel punto in cui un’ortica l’aveva punto, e Greta si spazzolava i capelli davanti allo specchio. Paolo mi sorrideva, e compiaciuto e dolorante mi mostrava la sua ultima sbucciatura sul ginocchio. Io me ne stavo a guardarli, e spesso mi ricordavano i bambini sperduti di Peter Pan.

Nei nostri pigiamini colorati ci infilavano nel lettone con ognuno un biberon  di camomilla calda ,nonostante la nostra non più tenerissima età, in attesa che la nonna arrivasse e ci raccontasse un’altra storia, nuova, diversa da quella della sera precedente.

E allora l’aspettavamo, lì al calduccio, noi quattro, vicini e minuscoli. Bisbigliavamo sotto le coperte e ci guardavamo nella penombra, con i nostri pancini sazi, e i nostri occhi ancora affamati di avventure.

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