Momo (fuori concorso 3)

Genere: fiaba

Non molti anni or sono, in una notte senza stelle, nell’aria fresca e umida balenò un lampo accecante, e un tuono lo rincorse, per poi spegnersi in un brontolio lontano. Tornò la quiete alle falde del monte Olimpo, ma gli animali, atterriti dal rombo del fulmine, esitarono ad uscire dalle loro tane, perché percepivano ancora un suono fioco, ma inquietante, provenire dalle nuvole che nascondevano la cima della montagna. Il rumore si fece sempre più distinto: era un urlo lancinante stavolta a fendere l’aria, ma non suscitava paura o pietà, anzi, nella sua grottesca dissonanza sembrava una sghignazzata incontrollabile, sguaiata. Un tonfo, e la notte fu inondata da quella stridula risata. L’ometto calvo e grassoccio che era piombato dal cielo si divertiva a turbare il profondo silenzio che lo circondava, e continuava a schiamazzare senza ritegno, rotolandosi sull’erba ed asciugandosi gli occhi con le dita. Solo una volta che ebbe sfogato fino in fondo la sua ilarità, la buffa creatura si decise ad alzarsi, facendo forza su un bastone, e, percorsa per tutto il nudo corpo da un brivido di freddo, alzò al cielo il suo strano sguardo sarcastico. “Notte! Notte! Rispondimi, madre mia, non senti che disturbo la tua quiete continuando a urlare come un pazzo? Su, rispondi!” La notte non si fece attendere, e rapida lo avvolse nella sua oscurità. “Per Zeus, che ci fai qui, Momo? Sei scivolato giù dall’Olimpo, eh? Il solito imbranato buono a nulla! Quaggiù fa freddo, non puoi rimanere così, nudo come un verme!” Pronunciate queste parole con voce severa, ma premurosa, prese alcune nuvole dal suo immenso ventre, e dopo averle tinte del suo inchiostro blu scuro, iniziò a filarle, intessendo trame sottilissime con divina maestria. “Ecco dei vestiti. In questo secolo è proibito andare in giro senza indossarne! Ma come sei caduto? Com’è potuto accadere?” Un luccichio scintillò negli occhi di Momo, che per tutta risposta riprese a spanciarsi come un forsennato. “Dovevi vedere che musaccio arcigno aveva Zeus quando mi ha afferrato come un sacco di patate e scaraventato giù dalla montagna! Crepo ancora dalle risate al solo pensiero dell’espressione che ha fatto quando gli ho dato del vecchiaccio inutile! Aveva ben poco di divino, posso assicurartelo… E tutto questo solo perché gli ho fatto notare che a forza di starsene seduto sul suo trono senza combinare nulla stava mettendo su qualche chiletto.” La notte impallidì: “Che cosa? Sei davvero un idiota, pensi che questo mondo stia lì ad aspettarti con un tappeto rosso? Qui non sei un dio, sei un vecchio ciccione con un bastone e una maschera. Ringrazia il cielo che ti ho fatto almeno un completo elegante…” Momo fece un cenno con la mano: “Suvvia, madre, non sgridarmi inutilmente, sai bene che sono il dio del Sarcasmo e del Biasimo. Sei tu che mi hai generato, che altro puoi aspettarti da me? Sono sulla terra, tra gli uomini, e con questo? Pensi che non sappia cavarmela?” “Voi ve ne state sempre al sole, là in cima all’Olimpo, ma qua le cose sono ben diverse. Ti ci abituerai anche tu a vedere le cose che vedo io qui sotto tutte le notti, da secoli. Cerca anche tu la tua strada, e dai un morso a quella lingua biforcuta che ti ritrovi, inetto bamboccione. A volte mi sembri addormentato come tuo padre, Momo, figlio mio… Buonanotte!” E così si fece giorno. Momo si incamminò, senza una meta, conversando amabilmente con l’aurora che stava sorgendo. Camminò per tutto il giorno, mettendo a dura prova le sue gambette tozze, più abituate agli ozii olimpici che alla fatica della marcia. Ad ogni passo vedeva qualcosa che non gli andava a genio, e quando non prorompeva in aperte manifestazioni di disprezzo per ciò che lo circondava non rinunciava, comunque, a masticare tra i denti parole amare ed ironiche. Giunse in piena notte ad una piccola casetta di campagna, sperando di poter finalmente riposare le sue membra immortali su un lettaccio qualsiasi, fosse anche stato duro come la corazza di Ares e ruvido come la pelle di un titano. Bussò alla porta, pregustando la proverbiale ospitalità contadina tanto celebrata da Apollo: venne ad aprirgli un uomo smunto, il cui viso tradiva ancora qualche traccia di vigore giovanile, nonostante le guance scarne e gli zigomi pronunciati. Gli occhi, neri, sembravano vedere ma non guardare. “Salute, mio buon contadino! Il mio nome è Momo, e per nulla al mondo rifiuterei un bel piatto caldo e un letto in cui dormire, se voi foste tanto gentile da offrirmene.” L’uomo gli voltò le spalle ed entrò in casa senza dire nulla, lasciando la porta aperta dietro di sé. “Davvero molto gentile, signore! Quanta poesia nella vostra voce, che fiorfiore di eloquenza, accetto il vostro invito molto volentieri!” Momo scoppiò in una fragorosa risata ed entrò, sbattendo la porta. Percorso un breve corridoio dalle pareti grigiastre e spoglie si ritrovò in un piccolo salotto. La stanza era arredata molto sobriamente: un tavolo di legno scuro e un gonfio divano dalla copertura sgualcita riempivano quasi tutto lo spazio disponibile, occupato per il rimanente da alcune sedie spaiate. Momo ghignò e disse: “Ma questo dev’essere il leggendario palazzo di Minosse! O mi trovo forse nella reggia di Serse?” E sgranando gli occhi aggiunse “E voi siete certo di sangue reale! L’ho notato subito, sapete, dal vostro aspetto fiero e florido…” L’uomo dallo sguardo assente aprì un cassetto del vecchio tavolo da pranzo, tirò fuori una busta di tabacco e, sedutosi su una delle sedie, iniziò a prepararsi una sigaretta. “Non ho cibo per un grassone con un vestito elegante…” La voce lo faceva sembrare più vecchio di quanto i suoi lineamenti lasciassero trasparire. “Santo cielo! Ricco ed anche simpatico questo buon uomo! Siete un ricettacolo di virtù, sapeste quanta invidia vi porto…” Momo aveva sorriso alla provocazione del contadino, ma la sua sfacciataggine lo stuzzicava a girare il coltello nella piaga. “Orsù ditemi, fortunato signore, dove li tenete nascosti i vostri tesori? Una casa simile non può che racchiudere oro, argento e ricchezze in abbondanza… Come mai non sfoggiate sulle pareti le immagini dei vostri illustri antenati, preziosamente incorniciate?” Lo sguardo del padrone di casa si era fatto più torvo. Si accese la sigaretta in silenzio, e dopo aver tirato qualche boccata rispose a Momo, che nel frattempo si era stravaccato nel divano, molto più ruvido di quanto il suo gonfiore potesse suggerire: “Basta così. Vattene da casa mia. Ho già sopportato di tutto da persone che avevano lo stesso aspetto gaudente e molliccio che hai tu. Ho perso molto di quello che avevo, ma non intendo perdere anche la dignità.  Voi benestanti, voi intellettuali, voi politici in giacca e cravatta siete venuti a dirmi che in Europa c’era una crisi, che il vostro stato era fallito e che io dovevo pagare. L’ho fatto, e siete venuti a dirmi che dovevo pagare ancora. Ho perso acquirenti, e le banche certo non mi hanno aiutato. Avevo un campo, mi è rimasto un orto, non ho cibo per gli ospiti, soprattutto per quelli indesiderati come te, che non mi ispiri nessuna fiducia.” Le offese non facevano né caldo né freddo a Momo, la cui attenzione si era però fermata su quella parola, crisi, così strana e inquietante nella bocca di un contadino, un gioioso e genuino servo di Gea. “Crisi? Di che parli? Ci sono carestie? Epidemie? La peste?” “Macchè peste e carestie, la Grecia è fallita! Il debito pubblico è alle stelle. Qui si fa la fame. Pensi che stia scherzando? Vai a fare un giro nella nostra bella capitale, vedrai che spasso! La gente è arrabbiata, è violenta. Tutto è in vendita ma non c’è nessuno che compra. Abbi il coraggio di tuffarti nel caos di Atene. E’ caos made in Greece, uno dei pochi prodotti tipici che va ancora alla grande!” detto questo il contadino aggrottò per un momento le sopracciglia scure, per poi lasciarsi andare in una risata lenta, amara, forzata, che sembrava fatta di piccoli colpi di tosse sbuffanti del fumo della sigaretta. Momo inorridì. Non poteva sopportare che si ridesse di lui. Avrebbe accettato con una sghignazzata qualsiasi insulto o sfuriata ringhiata a denti stretti, avrebbe riso davanti ad occhi spalancati, volti rossi o tempie pulsanti di rabbia, ma mai avrebbe tollerato che qualcuno lo deridesse a sua volta. Stava arrossendo, e questo gli dispiaceva ancora di più. Oltretutto l’idea di una Grecia in crisi l’aveva spiazzato completamente. Il suolo gli mancava sotto ai piedi. L’imbarazzo divenne tale che Momo si alzò dal divano su cui era seduto e fuggì da quella casa, inseguito dall’eco della risata, che gli accarezzava le spalle come il lenzuolo di un fantasma. Si fermò, ansante, sul ciglio della strada, per riprendere fiato. Confuse idee di rovina cominciavano a farsi strada nella sua mente. Stava iniziando a provare una certo malessere, che lui stesso non riusciva a spiegarsi, un’ombra nera che gli offuscava i pensieri, privandolo della facoltà di pensare freddamente e razionalmente. “Che cosa mi prende?” disse tra sé. Era un dio, dopotutto. Certo, era il figlio brutto del Sonno e della Notte, ma anche lui, il Sarcasmo, era un immortale. Pensò che avrebbe fatto bene a tornare dal contadino ed esigere la sua adorazione, ma il pensiero che quello potesse ridere in faccia anche alla sua maestà divina lo fece rabbrividire. D’altronde, non poteva tollerare le insinuazioni di quel poveraccio sulle presunte condizioni della sua bella Grecia. “Forse ho un ruolo. Magari Zeus mi ha cacciato dall’Olimpo perché gli uomini hanno bisogno di me. Sarò amato mai da questi mortali? Devo andare ad Atene, devo vedere e tranquillizzarmi…”. Come si sa, un dio non ha mai la forza di contraddire un proprio pensiero, perciò non si pose neanche il problema di considerare quanto lontana fosse la città dal luogo in cui si trovava o quanto ci avrebbe messo. Partì, avvolto dalla Notte. Camminò poco, perché la marcia del giorno precedente gli aveva prosciugato tutte le forze, e così pensò di farsi una breve dormita sul prato al bordo della strada. Si stese sull’erba fredda e chiuse gli occhi. Mentre stava lì immobile a respirare, assorto in un turbinio di pensieri confusi e inafferrabili, un’automobile che portava a rimorchio una roulotte gli si fermò accanto. Dal finestrino uscì un volto bruno. “Persiani in Grecia? Dev’esserci un’altra guerra…” Il pensiero aveva appena fatto in tempo ad attraversare la mente di Momo che l’automobilista dalla pelle scura sorrise e gli chiese: “Che fai lì steso? Serve un passaggio? Io e i miei amici siamo diretti ad Atene! Entra pure nella roulotte!” E la indicò a Momo, che faticava a capire quale forza potesse muovere quel carro grosso, pesante e privo di cavalli. “Molto gentile, davvero, ad ospitarmi nel tuo calesse!” Entrò nella roulotte, e rimase sbalordito nel trovarvi all’interno dei letti, un tavolo, alcuni pensili di legno ed anche una poltrona, su cui dormiva un tale coperto dal cappuccio. Si udì uno scroscio d’acqua, dopodichè un altro individuo dai tratti mediorientali uscì da una porticina che Momo non aveva ancora notato. Guardò l’ospite, che se ne stava fermo sull’uscio a guardarsi intorno con aria sconcertata. Diede un’occhiata all’amico addormentato e disse, voltandosi di nuovo verso Momo: “Vai anche tu ad Atene?” Momo annuì. “Benvenuto a bordo, allora!” il giovane arabo gli fece un cenno mostrandogli l’angusto spazio della loro roulotte. “ Ma questa… è davvero una casa con le ruote? Lo dicevo io che le case erano inutili se non potevano muoversi! Devo tenere a mente di riferirlo ad Atena prima o poi.  Si era infuriata quando l’avevo denigrata per l’inutilità delle sue case immobili…” L’uomo uscito dal bagno fece un’espressione perplessa, ma non era interessato ad andare a fondo nella questione. Invitò Momo a sedersi con lui, e si misero a chiacchierare. Gli spiegò che lui e i suoi due amici, Ahmed e Omar, erano studenti iraniani in vacanza, venuti in Grecia per ammirarne i monumenti e i bellissimi paesaggi. Ciò riempì Momo di orgoglio, e lo stupì piacevolmente l’idea che popoli stranieri venissero nella sua terra con intenti amichevoli, senza portare guerra né saccheggiare città e campagne. Il fatto, poi che della gente venisse da lontano per ammirare le bellezze della Grecia placò le inquietudini nate in lui dalle oscure parole del contadino. “Uno zotico insoddisfatto della sua mediocrità” pensò tra sé e sé del disperato agricoltore, e l’immagine della sua grande patria in crisi tornò a sembrargli ridicola. Trascorse ore piacevoli parlando con l’iraniano, che disse di chiamarsi Hussain, e prima che potesse farci caso l’alba aveva già insinuato le sue dita rosee attraverso i finestrini della roulotte. Atene comparve all’orizzonte alle prime luci del mattino. Momo la intravedeva appena, ma la sua estensione lo lasciò a bocca aperta. Non avrebbe mai pensato che una città potesse essere tanto grande. Lo assalì un’euforia quasi infantile, che lo fece fremere sul suo sedile come una fogliolina al soffio del maestrale. I suoi dubbi caddero, e riuscì a sorridere delle proprie infondate paure. “E’ così grande che non riesco ad abbracciarla con lo sguardo, neanche a questa distanza…” Si rimproverò per la sua malafede, e aspettò di arrivare con l’ansia di un bambino che pensa ai regali che troverà sotto l’albero di Natale. Ma la sorpresa non era del tutto dolce. Vedeva case dalla forma strana dai finestrino, sempre più spesso man mano che avanzava. Sembravano sporche, incomplete. Vedeva edifici che parevano lische di pesce, vuote, nude e disabitate. Vide pali da costruzione spuntare dai tetti piatti di moltissime case, simili a pesanti lance piantate in carni morte e pallide. Momo distoglieva lo sguardo, parlottava con Hussain, non voleva, non voleva guardare. Si interessò ai minimi particolari della vita del suo interlocutore, ma gli occhi gli sfuggivano in continuazione da quelli del ragazzo, e ricadevano sempre sulle immagini squallide che sfrecciavano via dai vetri della roulotte. Erano segnali che, pur scappando a gran velocità dal suo sguardo inquieto, alimentavano pensieri oscuri nel profondo del suo cuore. Cominciava a sospettare che gli dei avessero commesso un errore a crogiolarsi nei loro comodi privilegi divini così a lungo. Forse gli uomini erano veramente riusciti ad andare avanti senza di essi, e tutto forse era davvero cambiato sotto le nuvole, cambiato a tal punto che la gente si era dimenticata di loro. Pensò che se i giovani iraniani non provavano il suo stesso sconcerto nel trovarsi di fronte le strane costruzioni che tanto lo stupivano, allora dovesse essere tutto normale. Si ripropose di tenere per sé, per quanto possibile, la sua meraviglia. Odiava l’idea che i suoi nuovi amici potessero ridere di lui, o considerarlo uno stupido. Si trovò presto circondato dagli altri edifici di Atene, che nella loro imponenza lo ammutolivano. Avrebbe voluto sapere, chiedere di più sulle stranezze che vedeva, ma non ne aveva il coraggio. “Dev’essere tutto così semplice e ovvio per queste persone…” Il pensiero lo metteva a disagio, ma si sforzò di rimanere sereno e tranquillo. Le folle che animavano le strade e le altissime costruzioni che lo sbigottivano erano un buon segno, a ben vedere. Ahmed, il ragazzo che guidava l’automobile, posteggiò vicino a piazza della Concordia. Erano le sette di mattina. Momo scese dalla roulotte come trasognato; la sua confusione era profonda, e lo spaesamento gli faceva girare la testa. Gli sembrava tutto così strano, ridicolo, ma aveva perso la forza per scherzare. Non riusciva a ridere di ciò che vedeva, proprio lui che non aveva mai esitato a farlo davanti a nulla e a nessuno. Camminò, come in sogno, in mezzo a una miriade di persone, accompagnato dai suoi amici iraniani. Si sforzava di parlare con loro, perfino di sorridere davanti ai loro sguardi allegri e spensierati, ma si sentiva quasi abbandonato. Fu poi una musica a ridestarlo dal torpore dei suoi pensieri. Il ritmo era martellante, inquieto, ma lo affascinava. Forse quel suono tumultuoso lo attraeva perché somigliava molto all’affollarsi di inquietudini che lo squassava da dentro. Momo si incuriosì, e chiese a Hussain e agli altri di seguirlo verso dove provenivano quei palpiti frenetici. Si incamminò in un vicolo laterale della piazza. Man mano che la musica si faceva più chiara e distinta Momo accelerava il passo. Gli studenti, perplessi della sua curiosità, faticavano a tenergli dietro. Si ritrovò a correre nella stretta via che aveva imboccato, per poi fermarsi di colpo all’aprirsi di un piazzale di modeste dimensioni. Lo spettacolo che si trovava davanti gli risultò incomprensibile. Alte casse scure rimbombavano ai colpi di una canzone assordante, al cui ritmo ballavano alte figure vestite di nero. Erano uomini grossi e goffi, invasati dalla forza dei suoni che pulsavano nei loro crani rasati. Urlavano e si spintonavano gli uni con gli altri, mentre alcuni sventolavano alte bandiere scure decorate da una strana greca dorata. A Momo tornarono alla mente antichi riti dionisiaci, baccanti che si dimenavano nude nei boschi ed ebbri cortei che portavano legumi al tempio delle Rane. Ma quale dio poteva nascondersi dietro a simili schiamazzi? Provò un malessere e un conato. Nell’aria vibrava una disarmonia non solo musicale, ben più profonda, tanto sottile da penetrargli nell’anima, nelle viscere. Ahmed, Hussain e Omar raggiunsero Momo, e la musica cessò. “Ehi ehi ragazzi! Perché non vi unite a noi?” Tutti i colossi pelati scoppiarono a ridere, ma l’uomo che aveva parlato era serio in volto. “Che ci fate qui, sporchi negri? Volete stuprare le nostre donne? Siamo vostri amici, noi, avvicinatevi, non siate timidi!” La sua voce era un ringhio. Momo guardò negli occhi il corpulento individuo, e gli rispose, socchiudendo le palpebre: “Fai del Sarcasmo, tu? Hai idea di con chi stai parlando?” Il tale si mosse verso Momo, che disse, rimanendo immobile: “Aggraziato come un cigno, per gli dei! Agile come una ninfa che danza sul pelo dell’acqua…” L’uomo scattò e tentò di afferrarlo per il colletto della giacca, ma non gli rimase tra le dita nient’altro che bluastra nebulosa evanescente. Diede uno spintone a quello che, per lui, era soltanto un vecchietto sfacciato, gli puntò contro un suo dito gonfio e indurito e urlò: “Ringrazia Dio di essere nato in Grecia, vecchio bastardo. Se fossi stato uno straniero come questi porci negri ti avrei già sfracellato il cranio. Alba Dorata! L’alba dorata della Grecia. Ricordati questo nome la prossima volta che ti verrà in mente di fare amicizia con qualche musulmano.” A quest’ultima parola alcuni dei bestioni non riuscirono a trattenersi. Si avvicinarono in sette ai tre iraniani e li spinsero contro a un muro, pungolandoli con le aste delle loro bandiere. Li costrinsero a togliersi le magliette, e cominciarono a percuoterli sulla schiena con bastoni e catene. La loro furia era spaventosa, selvaggia. I giovani studenti gridavano disperati. Hussain piangeva. Momo si mise a urlare: “Cosa fate? Siete impazziti? Perché lo state facendo?” L’uomo con cui aveva parlato aveva un sorriso cattivo. Gli rispose, senza distogliere lo sguardo dai suoi compagni, che continuavano a colpire i ragazzi sulle gambe e sulla schiena: “Perché non sono greci come noi. Siamo una razza superiore.” “Pazzi! Pazzi! Pensate che sia la forza a distinguervi fra i popoli del mondo? Incoscienti, solo la disponibilità e la cultura le vostre sole forze! Fermatevi, vi prego, non vi rendete conto di quello che fate!” Momo era un dio, ma era debole. Quei colossi non ebbero difficoltà a respingerlo quando provò ad interporsi tra i suoi amici e i seviziatori. Hussain e Ahmed riuscivano ancora a mugolare di sofferenza quando gli enormi torturatori smisero di bastonarli e di prenderli a calci in faccia, per lasciarli esanimi sui ciottoli del piazzale. Omar invece era silenzioso. Che stesse soltanto dormendo? Forse sì, forse dormiva, come quando Momo l’aveva visto per la prima volta, accasciato sulla poltrona della roulotte. Momo era paralizzato. Avrebbe voluto fare qualcosa, confortare i suoi amici, proteggerli, curarli. Lo sguardo del grosso militante di Alba Dorata però era freddo, ghiacciato. “Non puoi fare nulla per loro, vecchio. Sei inutile. Hai tradito il tuo popolo facendo amicizia con questa feccia, ed ora hai perso anche il poco che avevi. Vattene, ora. Noi ti risparmiamo perché siamo dalla parte dei greci. Noi amiamo questa nazione. Vattene, ti dico, prima che la tua sfacciataggine sporchi di sangue il nostro alto patriottismo…” Momo provò un senso di disgusto, di tale rifiuto per quello che aveva visto che prima che potesse pensare lucidamente alla sua situazione si ritrovò a voltare le spalle a quell’atroce spettacolo e ad incamminarsi, lentamente e con la morte nell’anima, per il vicolo che poco prima aveva imboccato di corsa. Si addentrò nel centro di Atene senza neanche rendersi conto di ciò che faceva o di dove andava. Guardava per terra mentre camminava, totalmente immerso nel vuoto pneumatico che gli riempiva la testa. Dopo parecchio tempo, nemmeno lui sapeva quanto, alzò lo sguardo. Le numerose case semicostruite e mai completate che si trovava davanti sembravano sogghignare davanti alla sua incredulità. Pareti scrostate e vecchi cartelli di “Vendesi” lo schiacciavano da ogni parte, come figure mostruose negli incubi di un bambino. Momo respirava forte, sopprimendo un’angoscia che cresceva in lui, un’ansia di correre, fuggire, o forse solo di chiudere gli occhi e dimenticare. Ripensò alle parole del contadino, e si sentì umiliato. L’orgoglio, quella buffa mania che si era sempre divertito a pungere e a scimmiottare, stava mordendo furiosamente il suo cuore immortale. “E’ davvero tanto debole il mio potere? Potrò mai perdonare a me stesso la mia impotenza? Che stupido aver pensato che Zeus mi abbia cacciato dall’Olimpo per adempiere a una missione. L’ha fatto solo per deridermi, per prendersi finalmente gioco di me, una volta per tutte. Sono caduto nella sua trappola, e non posso farci più niente. O forse posso? Certo, mi ha dimostrato che non sono tagliato per il combattimento, ma di questo cosa dovrebbe importarmi? Niente, assolutamente niente. Il mio potere è la mia lingua. Devo trovare l’Acropoli, i templi, solo lì un dio può essere ascoltato dai mortali. La mia arguzia sarà questa volta al servizio di una buona causa. La Grecia si sveglierà, sentirà il mio richiamo, si ricorderà dei suoi valori e del suo passato. Parlerò, e anche il mio nome tornerà di nuovo a vivere.” Sentì una nuova spinta incalzarlo da dentro. Quello che era successo lo aveva svuotato completamente, ma la fermezza del suo ultimo proposito riuscì a focalizzare in sé tutte le sue energie residue. Iniziò ad aggirarsi nella via in cui era finito, cercando qualcuno a cui chiedere la strada per l’Acropoli. Presto il suo sguardo cadde su un cartellone cartonato, precariamente attaccato con dello scotch alla vetrina di un negozio chiuso per fallimento, che riportava lo stesso orribile simbolo a greca che campeggiava sulle bandiere degli aggressori. Si avvicinò e lesse il manifesto. “Alba Dorata” Era l’incipit. I caratteri erano dorati, e troneggiavano, enormi, sul testo sottostante. C’era scritto che il capo del movimento, Nikolaos Michaloliakos, era commosso, e ringraziava il suo popolo, il cui appoggio, alle ultime elezioni, gli aveva permesso di portare ben diciotto suoi rappresentanti in Parlamento. In fondo al cartello la scritta: “Votate anche voi Alba Dorata!” Momo si sentì mancare il respiro, voltò le spalle al negozio e si affrettò, ormai del tutto determinato, a cercare indicazioni. Presto le ottenne, e dopo non molto tempo La vide. Gli apparve come una anziana, dolente attrice di teatro, tra le cortine logorate dei palazzi moderni. Sembrava così bianca l’Acropoli, sotto il sole della primavera. Momo le vedeva già da lontano, le tracce della rovina, e così morte e pallide gli parevano le colonne del tempio di Atena… Questo era circondato da strane impalcature di ferro, oppresso da palizzate e tubolari che sembravano incatenarlo al terreno. Momo provò pietà per il Partenone. Non sentiva più, in quel momento, la fretta che l’aveva fatto correre fin lì. Rallentò il passo, e si accinse a salire le scale che portavano ai propilei. Camminò, circondato dagli ulivi ed assalito da immagini che suscitavano in lui una commozione viva, profonda. Vide tra gli alberi capitelli spaccati e tronchi di colonna verdeggianti d’erba, e guardò dolci fioriture di margherite piegarsi al vento tra fredde lastre di marmo. Si ricordava di quelle pietre. Erano state lucenti, perfette, candide, nel tempo in cui il mondo girava loro intorno. Sembrava così stupida quella bellezza, buttata lì per terra, rotta, scalfita, sbiancata. C’erano i colori un tempo in quella città, ma che ne rimaneva? Momo continuava a procedere, lento come solo un morto può esserlo. Saliva, impacciato, su per gradini sconnessi. La sua testa calva era lucida, imperlata di sudore. Un sudore umano, non divino. Gli venne da sorridere al ricordo delle schiere di soldati che avevano calcato quel sentiero per recarsi a far voti agli dei. L’avevano sempre fatto tanto ridere i guerrieri… Salì ancora. Che cosa aveva potuto distruggere tutte quelle costruzioni? Erano grandi, solide, ammirate da tutti. Cose poteva averle fatte crollare? Gli ulivi divennero meno numerosi intorno a lui, finchè si ritrovò a passare, in silenzio, tra i cadaveri dei propilei. C’era molta gente sull’Acropoli, e Momo se ne rallegrò, sperando in un auditorio molto vasto. Passò accanto alla mole del Partenone, e camminando volse lo sguardo verso le cariatidi dell’Eretteo. “Un tempo facevano innamorare la gente queste statue”, pensò. “Anche voi siete invecchiate, come tutti noi immortali. Ma in fondo, per corrose e ingrigite che siate, siete ancora splendide, sorelle mie.” Avanzò, facendosi largo tra la folla, e si fermò ai piedi del mastodontico tempio di Atena. Si guardò intorno, pensando come attrarre l’attenzione della gente che lo circondava. Lui non poteva saperlo, ma i greci erano pochi, sull’Acropoli. Erano quasi tutti turisti stranieri, inglesi con cappello e maglietta polo, tedeschi in sandali e molti giapponesi con macchine fotografiche al collo. Ma lui questo non lo sapeva. Pensò che il suo momento fosse finalmente arrivato: si piazzò davanti alle colonne del Partenone, spalancò le braccia e cominciò a parlare con voce solenne: “Fratelli greci e sorelle greche, ascoltatemi! Ho visto morte nella nostra patria! Ho visto una grandezza atroce nella nostra capitale, una follia di potere che ha avvelenato tutto. Ho camminato, muto, in un flusso indifferente di fantasmi, non di uomini, e gli unici volti umani che ho incontrato sono stati macchiati di sangue! Perché tanta violenza, chi può volerla? Non potete starvene senza fare nulla davanti alle ingiustizie e ai soprusi, è l’atteggiamento che meno mi sarei aspettato da dei greci come voi!” Molti dei turisti si erano voltati all’inizio dal discorso, ma erano subito tornati a farsi i fatti propri, convinti che l’ometto pelato che parlava a voce così alta fosse solo un pazzo, o uno che volesse farsi notare per la sua stravaganza. Solo un gruppo di ragazzini di una scolaresca straniera continuò a fissarlo. Erano divertiti dall’aspetto grassoccio e buffo di Momo. Questo continuò a parlare: “Abbiate il coraggio di ammettere le vostre colpe e di trovarvi un rimedio, una soluzione. E’ il Biasimo che vi parla, non potete lasciar passare senza battere ciglio le atrocità di serpi che vi siete allevati in seno e che avete anche votato! Avete già taciuto abbastanza, è tempo di alzare la voce! Misero io, miseri voi se scorderete le vostre radici. Onore e gloria, sì sono cose vecchie, ma come possono morire l’etica, l’ospitalità, la cultura, nella terra che per prima diede loro un nome? Davvero la paura è diventata così potente da cancellare qualsiasi valore umano dalle vostre menti? La morte, il dolore, il timore per altri uomini, sopravvivranno sempre, sono immortali come me, che sempre vi biasimerò, ma voi, che conoscete bene i vostri limiti mortali, volete veramente asservirvi a questi e votare al loro nome la tremula fiamma della candela che vi è concesso ardere? Troppo breve è la vita per lasciarla tremare a un venticello qualsiasi, prima dell’ultimo soffio.” Momo era sudato, e per la prima volta nella sua vita, o meglio dovrei dire esistenza, gli occhi gli stavano diventando umidi di pianto. si rendeva conto che nessuno era turbato o punto sul vivo dalle sue parole, e ciò non lo faceva arrabbiare, né ridere, ma lo riempiva di un’inusitata tristezza. Sentiva un muro davanti a sé, e tutti i pugni, i calci, le testate del mondo, umane o divine, non avrebbero saputo abbatterlo né scalfirlo. Una parte di lui avrebbe voluto levare sopra tutti gli uomini la potenza immortale della sua mano, mostrarsi per quello che veramente era: uno squalo in un banco di pesciolini. Avrebbe voluto supplicare Zeus di dare vita ad una nuova Elena che seminasse discordia, morte e distruzione tra quelle inette creature umane. Ma c’era anche in lui qualcosa di nuovo, una pietà che lo faceva star male. Cosa lo avrebbe distinto dalle atrocità a cui aveva assistito se avesse lasciato crescere in sé simili pensieri di odio? Si sentì dentro una debolezza disperata, e un senso di colpa martellante che gli serrava gli arti e lo radicava al suolo come un vecchio ulivo. Si rese conto di quanto potesse sembrare ridicolo, impalato davanti alle crollanti testimonianze della fine di un mondo, del suo mondo. I ragazzini che lo guardavano si davano di gomito e ridacchiavano tra loro, senza porsi affatto il problema di non farsi notare. La folla di turisti continuava a ignorarlo. Un tale in bermuda e camicia fiorata gli scattò una foto, strizzando l’occhio nell’obiettivo all’ombra di un berretto a visiera. Momo ripensò alle statue, ai fregi che lo ritraevano, fulgente di ambrosia e temibile come l’oscurità della Notte. Sussultò, poi si mise a correre, a fuggire dall’enorme scheletro bianco del Partenone, cercando un riparo, una culla, un nido in cui nascondersi da mille sguardi indifferenti. Momo, il Biasimo, riusciva solo in quel momento a capire cosa sentiva in sé di tanto pesante ed opprimente: era proprio lui, lo Spirito Critico, a pungere se stesso per le proprie colpe, sentiva in sé il biasimo di cui egli stesso era l’incarnazione. Era il biasimo silente di un popolo abbandonato dai suoi dei, dai suoi valori e dalle sue certezze. Presto si trovò lontano dall’Acropoli, e si fermò singhiozzando all’ombra di molti ulivi. Pianse a lungo, seduto su un pezzo di roccia chiazzato da pochi ciuffi d’erba, e per un po’ non fece caso a un vecchio dalla lunga barba che lo guardava, a poca distanza, celando malamente un sorriso malevolo. L’anziano signore si fece accanto a Momo, scosso da singulti e con il volto tra le mani. “Devo proprio ammetterlo, le tue parole hanno la forza della più impetuosa delle cascate!” Momo alzò gli occhi, e vide il vecchio che lo aveva apostrofato in modo tanto beffardo esplodere in una risata che ricordava il tuonare di un  fulmine. Tirò un lungo respiro e rispose: “Che fai qui, Zeus? Era ti ha cacciato dall’Olimpo per l’ennesimo tradimento?” Lo sguardo di Zeus si fece più dolce. “No, Momo, sono venuto per te. Perdona la mia facile ironia, ma avevo una gran voglia di ritornarti uno dei tuoi mille scherni. La tua forza è grande, mio divino amico, e le tue parole saprebbero ancora fare breccia in cuori sensibili. La terra però è diventata sorda, o meglio, è stata assordata da infiniti frastuoni di guerre e di macchinari. Non c’è niente adesso che tu possa realizzare. Nemmeno io lo posso, è per questo che illanguidisco giorno dopo giorno nella mia dorata corte di smidollati.” Momo sorrise, e lo ringraziò. “Sono io che ringrazio te, figliolo, perché come mi dicevi tu avevo proprio bisogno di fare un po’ di moto. Arrivare qui da te mi ha fatto un gran bene, mi sento forte come un leone! E non è solo per questo che ti sono grato. Lo sono soprattutto perché, dopo secoli di inerzia, sei riuscito a commuovermi. Sono stati inutili, certo, i tuoi sforzi, ma hai provato a farti ascoltare col cuore in mano. Hai dimostrato per questa terra un amore sincero, libero dalla tua solita malizia un po’ meschina. Ti sei finalmente sentito vicino agli uomini, tu che sempre li hai derisi. Non piangere più adesso, perché non tutto è perduto. Le antiche glorie sono sepolte, questo è vero, e fioriscono di viole sotto il tiepido sguardo di Iperione, ma il nostro popolo ha ancora molto da insegnare ai barbari di tutto il mondo. La crisi che oggi affligge la Grecia è nata perché la sua gente ha smesso di competere, di lottare ed ostacolarsi a vicenda, e ha cominciato ad aiutarsi. L’ambizione di un tempo ha ceduto il passo all’appagamento, a una tranquillità soddisfatta e semplice che non poteva che essere inquinata dai fumi del progresso. Tu hai visto solo la polvere scura e amara che sta sulla superficie della nostra terra, ma al di sotto di essa l’erba è ancora verde. Rallegrati di te stesso e del tuo popolo, Momo, figlio della Notte e del Sonno, le porte dell’Olimpo sono di nuovo aperte per te.” Momo accolse le parole di Zeus con una lacrima, non di dolore, forse non di gioia, sicuramente di serenità. Il padre degli dei scomparve, veloce come un fulmine, spegnendosi in un brontolio lontano. “Facile per lui tornarsene fin lassù. A me tocca scarpinare…” e si incamminò senza fretta, imprecando per la fatica del ritorno. In realtà il suo cuore era gonfio, pieno di morte ma anche pieno di vita, di ricordi belli e terribili, di esperienza umane che non avrebbe più potuto dimenticare.

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