13. Imperfetta

Genere: Psicologico

Eléna osservava la signora seduta davanti a lei sull’autobus: era splendida. Occhi color oceano, grandi e profondi, capelli d’argento, labbra perfette. Eléna provò un vago senso di inadeguatezza e di disagio. Lei non sarebbe mai stata così bella, non ci sarebbe mai riuscita, né fra un mese né fra una vita. I suoi occhi erano piatti, di un insulso verde melma; i capelli, spaghetti di legno; le labbra, ridotte solo a una piega nella pelle. Eléna scoccò la richiesta di fermata. Balzò fuori dal mezzo e si incamminò. Le piaceva camminare perché aveva la possibilità di viaggiare per il piccolo mondo che la circondava, di osservare segretamente e fare sue quelle cose che gli altri non riuscivano a vedere. Ma non era sempre piacevole. Ecco: incrociò una giovane stupenda donna, dai capelli fluenti e dal fisico perfetto, che camminava fieramente e a mento alto. Guardandola provò un senso di vuoto mai sentito prima, un vuoto colmato solo dall’invidia. Lei non camminava così, non ci sarebbe mai riuscita, nemmeno fingendo. Istintivamente serrò i pugni ai lati dei fianchi in un atto di rabbia. Eléna raggiunse la stazione delle biciclette e ne prese in prestito una. Le si accostò a piedi uscendo da una viottola trasversale un uomo di forse quarant’anni; era un uomo distinto, con quel fascino proprio della sua età, con quel portamento tipico di chi conta e soprattutto con quel profumo che è impossibile dimenticare. Mentre Eléna passava in bicicletta, infatti, poté assaporare l’odore di cui era intrisa la pelle dell’uomo. I suoi sensi furono per un lungo attimo inebriati. Provò una sensazione di estasi, ma poi fu colta dalla mortificazione, dall’invidia, dalla rabbia, dall’accecamento. Lei non aveva quell’odore, non ci sarebbe mai riuscita, nemmeno nella sua immaginazione. Pedalò in lungo e in largo per la città movimentata con gli occhi gonfi di lacrime. Era stanca di essere l’unica imperfetta. Verso l’imbrunire, riconsegnò la bicicletta e si avviò per una stradina poco trafficata. Cercava di trovare la forza per reagire celata nella sua imperfezione, che l’ossessione le teneva nascosta. Ma più camminava, più ripensava ai lineamenti della signora sull’autobus, alla bellezza e alla sicurezza della donna per strada, al fascino, all’atteggiamento e all’odore inebriante dell’uomo. Al ricordo del profumo, smise di ragionare. Sentiva solo un gran buco nello stomaco dell’anima. Era profondamente scossa, glielo si leggeva anche esteriormente nel volto, nelle smorfie fulminee e negli scatti nervosi degli arti. Ad un tratto una ragazza la incrociò, Eléna le voltò bruscamente lo sguardo addosso e la osservò corrugando la fronte: capelli scuri, lunghi e lucenti, occhi enormi da cerbiatta; camminava in modo molto sicuro e ancheggiante; il suo odore era… Fu proprio il suo odore a far scattare la scintilla in Eléna: quando la ragazza si era ormai allontanata, Eléna si voltò verso la vetrina di un negozio; la sua immagine riflessa fu la fine. Scattò in avanti con il braccio alzato e la mano chiusa a pugno, sfondò la vetrina, i pezzetti di vetro le si conficcarono nella carne, un rigolo di sangue colò giù giù fino al gomito, ma non se ne preoccupò. Anzi, non aveva nemmeno percepito il dolore. La ferita più profonda e sanguinosa era dentro di lei. Chinatasi a raccogliere un coccio di vetro da terra, corse nella direzione della ragazza, come un fiume in piena. Udito il frantumo della vetrina, la ragazza aveva accelerato il passo; ma in pochi secondi la furia le fu addosso. La raggiunse alle spalle, le balzò sulla schiena e, portando il braccio davanti al collo, lo ritrasse velocemente. Si udì un urlo soffocato. Rialzatasi e girato il corpo della preda, la furia le strappò un pezzo di coscia e lo portò alle fauci. Il sangue ancora vivo e caldo sgocciolava da tutte le parti, ma che importava? Eléna si allontanò annusando a fondo un pezzetto di pelle che aveva ritagliato con premura. Ecco, ora, finalmente, era in possesso della perfezione, l’aveva portata dentro di sé. Era soddisfatta, felice, con l’adrenalina ancora in circolo e il gusto in bocca. Ritornò sulla strada principale e si incamminò verso casa. Arrivò che era quasi notte. Rientrò e si avviò verso il bagno per lavarsi via il sangue incrostato e disinfettare la ferita al braccio. Ma mentre attraversava il corridoio passò davanti allo specchio. Indietreggiò di due passi e si specchiò: era proprio perfetta. Si avvicinò allo specchio e scrutò la sua immagine con calma: si sentiva incompleta per una sola cosa, l’immortalità. Se si fosse uccisa, era convinta che si sarebbe risvegliata e avrebbe potuto vivere per sempre ostentando la sua perfezione, come una dea, eternamente bella e venerata, che nessuno sarebbe mai riuscito a eguagliare. Si ricordò allora del regalo del fratello: «Tieni Eléna», le aveva detto un anno prima, «adesso che vivrai da sola in una grande città avrai bisogno di un’arma di difesa.»

Eléna aprì piano piano la custodia, la alzò, impugnò delicatamente la pistola, la caricò e la osservò attentamente in ogni suo particolare. Era lo strumento per il suo riscatto. Costituiva il punto di svolta e di non ritorno del viaggio dentro di sé. La puntò alla tempia e, con un enorme sorriso, premette il grilletto.

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