17. Cenere

Genere: Storico

Un tonfo terribile. La porta di casa fu scardinata a calci. Nessuna cortesia, nessun rispetto, ci fu negata persino la libertà di scegliere chi accogliere in casa nostra. Tre uomini armati, che tante volte avevo visto dalla finestra camminare impettiti in strada, irruppero dalla porta senza parlare, ci puntarono i fucili alla testa e a calci e pugni ci spinsero via. Io rimasi immobile, come morta, tra le braccia di mio padre, rannicchiata in un angolo. Fissavo i volti di quei tre energumeni. Non vi era alcuna espressione sul loro viso, nemmeno l’odio. Uno di loro si fece avanti verso di noi, si chinò su di me e afferrandomi per i capelli mi trascinò via dal caldo e rassicurante abbraccio di mio padre. Non piansi, non ne ero capace. Contemplavo la bellissima figura di mio padre da dietro la spalla dell’ufficiale che mi scaraventava giù dalle scale. Capii allora dall’ombra di dolore nei suoi occhi che non avremmo mai più rivisto casa nostra, non ci saremmo mai più abbracciati sotto le calde coperte del nostro letto, non ci saremo più raccontati a bassa voce storielle divertenti prima di cadere tra le dolci braccia di un confortante sonno, non avrei mai più potuto cercare rassicurazione nelle sue pacate parole, ma soprattutto capii dalla rassegnazione con la quale obbediva a ogni comando del soldato, che lo intimava con la pistola conficcata nelle vertebre, che non saremmo mai più stati liberi. Fuori dall’edificio ci aspettava un camion stracolmo di persone. Li conoscevo: erano i miei amici di scuola, i miei vicini, persone che vedevo ogni giorno camminare per la strada, ridere, vivere. Ora venivamo tutti caricati come bestie pronte per il mattatoio su un furgone, per la colpa di essere nati. Il cielo si fece grigio e il freddo più pungente. Lanciai un’ultima fugace occhiata alle finestre di casa mia. Il palazzo non mi sembrò mai così bello e accogliente come allora mi apparve. Nel gelido silenzio dell’indifferenza di tutti quelli che distoglievano lo sguardo da noi, ci allontanavamo dal nostro quartiere, lentamente. Eravamo invisibili, impalpabili, della stessa consistenza dell’aria. Nessuno che ci gridasse frasi di conforto, che ci salutasse, o che ci mandasse benedizioni. A nessuno interessava. Tutti si voltavano dall’altra parte, come se nulla fosse. Per loro la vita continuava ed era giusto così. La nostra invece intraprendeva l’ultimo viaggio verso la fine. Tremavo. Il freddo mi strappava brandelli di pelle e di coraggio. Mio padre seduto al mio fianco si privò della giacca e me la appoggiò delicatamente sulle spalle. Notai la premura con la quale mi sfiorò il viso, quasi come se fossi talmente fragile da rompermi in mille cocci di vetro, debole, come un fiore appassito al sole. Appoggiai la testa nell’incavo della sua spalla distogliendo lo sguardo dai volti di coloro che spartivano con noi quell’amara sorte. Il furgone si fermò poco dopo, di botto. Quattro ufficiali armati ci strattonarono fuori dal camion. Io rimasi aggrappata alla mano forte di mio padre, mentre in fila indiana ci facevano marciare verso l’interno della stazione. Eravamo in molti. Uomini, donne e bambini che si trascinavano a stento uno dietro l’altro. Non una parola fu spesa durante la marcia. Nessuno aveva la forza di parlare. In molti piangevano, soprattutto bambini che probabilmente sentivano l’odore acre della disperazione

trasudare dalle carni delle donne che li tenevano stretti in grembo. Sembrava una marcia funebre, scandita solo da passi pesanti e disperati. Io camminavo a stento: i muscoli delle gambe ormai congelati non rispondevano più. Mentre claudicavo sostenuta dal braccio di mio padre che mi cingeva i fianchi, mi guardai attorno spaesata. C’erano persone di ogni grado sociale, età e paese; persone con diversi ideali politici, passioni, interessi, riuniti in un’unica babele di suoni e colori che si estendeva per metri tutt’intorno a me. Gli ufficiali sbraitando ordini spesso a me incomprensibili ci condussero davanti ad un treno merci di cui non riuscivo a vedere la fine. Strinsi più forte che potevo la mano di mio padre per fargli capire quello che a parole non potevo dire: “sono qui, non ti abbandonerò”. Inspiravo il terrore che aveva il sapore metallico del sangue, espiravo gli ultimi afflati di libertà che mi rimanevano in corpo. Ci caricarono uno a uno nei vagoni come vacche. Ci strattonarono con disumana violenza, mentre avanzavamo a testa bassa. In quella confusione uno sparo irruppe prepotente nelle nostre orecchie, la folla spaventata tutt’a un tratto si diramò con grida di sconcerto, svelando il corpo esanime di un uomo coperto dal suo stesso sangue. Mio padre mi abbracciò per confortarmi e proteggermi, mentre mi aiutava a salire sul nostro vagone. Eravamo più di sessanta persone in uno spazio esiguo e inospitale. Dietro di noi la porta si chiuse e rimanemmo al buio. Nello stupore del male altrui, ci lasciammo cadere spossati a terra tra la paglia. Il treno partì poco dopo. Il rumore delle ruote che correvano sui binari ci accompagnava, ci allontanava dalla nostra casa, dai nostri sogni, dai nostri odori, ci conduceva lontano dalle cose belle, che avevamo sempre reputato scontate: il dolce rumore del silenzio nelle mattine d’estate, l’aroma famigliare di un abbraccio, la semplicità di un sorriso, il fruscio delle pagine di un libro sfiorate dalle veloci dita del vento. Tutto ciò a cui eravamo legati ci veniva sottratto, come un bel sogno scompare nella luce del mattino. Non conoscevamo la nostra meta, non sapevamo cosa ne sarebbe stato dei nostri corpi mortali. Nei nostri occhi non c’era più il sole, la tiepida felicità, il melodioso rincorrersi delle stagioni, soltanto il buio, un cielo privo di stelle. Eppure ci ritenevamo esseri umani anche noi, granelli di sabbia sparuti in un oceano di possibilità, in un mondo che in parte ci apparteneva. Ma probabilmente era tutta una mera illusione, la finzione nella quale vivono i pazzi che si affannano inseguendo una qualche serenità, ma invano. Nel vagone tanti di noi, i più fortunati, pregavano trovando riparo in un Dio, che era stato preso come pretesto per nostri mali, sperando di essere accolti nelle sue grandi braccia. Passarono i giorni come se fossero un solo lungo inverno nell’inquietudine e nella paura. In tanti già mostravano i segni indelebili di cicatrici insanabili sui volti smunti e negli occhi di chi definitivamente aveva perso se stesso. Nel corso del lungo viaggio ci eravamo accartocciati come fogli di carta, avevamo dimenticato la nostra identità, non eravamo mai nati, né cresciuti, non eravamo uomini, ma semplicemente bestie, cani randagi. L’avevano ideata bene, i nostri aguzzini, la nostra fine, non si erano nemmeno degnati di farci conservare la nostra dignità come ultimo brandello di noi. Il treno si fermò lentamente nella nebbia del pomeriggio. I vagoni furono nuovamente aperti e i soldati ci scaraventavano fuori. Ci separarono, mettendoci in fila. Uomini da una parte, donne dall’altra. Osservai il volto di mio padre. Non volevo allontanarmi da lui, non volevo perderlo, perciò mi aggrappai a lui e lo abbracciai più forte che potevo.

«Männer verlieben!». Un ufficiale ci separò con violenza ed io riuscii soltanto ad afferrare la mano di mio padre e stringerla per trasmettergli attraverso quel gesto tutto il mio amore per lui. Da quel momento la folla lo trascinò via da me,  privandomi del suo sguardo profondo. Rimasi sola con altre donne, mentre ci contavano e decidevano delle nostre sorti. Uno dei soldati si voltò verso di me puntandomi contro il dito e urlò: «Nein». Subito, con altre ragazze e bambine fui condotta verso un grande edificio grigio che sputava fumo e odore di morte. Morii con altre cento, per la colpa di essere nata un giorno in un anno sconosciuto. Io sono la voce di una donna senza nome, senza età, senza lingua né paese, senza voce per ribellarsi a questi orrori. Una donna morta che ora probabilmente è nel vento.

Votami

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>