20. Il viaggio di una vita

Genere: Racconto di formazione

“Ho una valigia di domande, quelle di una vita intera, le risposte quelle no, io le cerco da una vita…”. Questa canzone risuonava nella mente di Filippo, un diciassettenne rivolto su un  tavolo della biblioteca del suo paese. Era intento a studiare, ma la sua mente, che lui lo volesse o no, viaggiava. Fino a quando gli risuonò quella canzone, che portò all’inizio di quell’avventura che lo attendeva.

Non riuscendo a studiare decise di tornare a casa. Prese lo zaino e in silenzio, con la testa china, sollevandola solo per salutare la bibliotecaria, uscì. Per tutta la strada di ritorno non riuscì a pensare ad altro se non a quella frase. E più ci pensava, più capiva che descriveva  la sua vita.

Era un ragazzo curioso. Gli piaceva indagare ciò che gli stava attorno e poneva numerose domande. Quesiti, di ambiti differenti, che formulava ai propri genitori. In molti casi non riceveva risposta o  non poteva porre domande. I genitori erano agenti d’affari che prima della famiglia ponevano il lavoro. Quando Filippo cercava di avviare un discorso sulla solitudine e l’abbandono che provava, riceveva la stessa risposta: “Caro, stiamo lavorando perchè tu abbia tutto ciò che vuoi, per il tuo futuro”. Non capivano che il figlio voleva essere parte della loro vita, essere amato. Voleva parlare con loro, condividere idee e pensieri, raccontare cosa aveva fatto. In tutti gli anni della sua  vita, nessuna di queste cose era avvenuta.

Era cresciuto in una villetta vicino ad un piccolo bosco di sempreverdi. I tronchi, coperti di muschi e licheni erano irradiati da timidi raggi di luce. L’unica persona famigliare a lui  era tata Tatiana, robusta, occhi piccoli e azzurri, capelli bianchi. Da quando era nato, Tatiana l’aveva considerato come il figlio che non aveva mai avuto. Lui la considerava come la madre e il padre  che non aveva mai avuto.

Lei era sempre riuscita a impressionare Filippo grazie alle storie di quando era ragazza in Ucraina. Aveva cercato di educarlo con idee di rispetto, generosità ed educazione. Era sportiva. La bicicletta non le poteva mai mancare. Lui la vedeva come un faro. Unica luce che in un mare in tempesta, come la sua vita, mostra la via per la riva, la sua strada.

Immerso nei pensieri, quando giunse a casa, non  si accorse dell’assenza della bicicletta di Tatiana. Aprì la porta d’ingresso, con le chiavi circondate da oggetti metallici che avevano sbattuto l’uno contro l’altro nel viaggio verso casa. Le appoggiò su di una credenza sormontata da uno specchio. Vide un foglio di carta con una scrittura che riconobbe essere quella di Tatiana. Lesse: “Scusa Filippo per non averti salutato. Il mio compito è finito. È ora che me ne vada. Spero che tu mi possa capire. Non è stato facile. Spero che tu possa dimenticare questo e portare nel cuore i ricordi più belli della tua tata. Al mio Filippo, che tu possa sempre cercare le risposte alle tue domande. Tata Tatiana”. Non fece in tempo a finire di leggerlo che una lacrima aveva raggiunto il foglio. Si accorse che accanto alla sua  ve ne era un’altra. Tatiana aveva pianto.

Mentre leggeva  sentì una presenza alle spalle. La madre non lasciava trasparire nessuna emozione per la reazione che avrebbe potuto avere il figlio. Lui, con lo sguardo sul foglio, fissava le dita tremare. Non si girò. Fissò con odio il suo riflesso nello specchio. Come se parlasse da solo annunciò la decisione più importante della sua vita: “Non riesco più a rimanere in questo posto chiamato casa. Era difficile quando c’era Tatiana. Non rimarrò. Vi lascerò liberi”. Corse verso le scale che lo portavano in camera sua. Chiuse la porta dietro di sé. La madre gridava  di riaprire la porta. Filippo prese lo zaino. Aprì l’armadio e prese quello che gli poteva servire. Chiuse il tutto. Si precipitò giù dalle scale. La madre lo fissava incredula. Si lanciò all’esterno di quella casa che non avrebbe mai più rivisto come proprio quei genitori. Corse sotto la luce dei lampioni. Non si accorse di essere giunto alla stazione dei treni. Decise di prendere il primo treno che lo avrebbe portato in Ucraina. Unico obiettivo: raggiungere la tata.

Lei, nello stesso momento, stava per salire sul treno che l’avrebbe riportata dalla sua famiglia. Sperava che Filippo l’avrebbe raggiunta, dicendole di tornare a casa. Non vide nessuno. Salì sul treno, la bicicletta in mano e un piccolo bagaglio. Aveva preso posto. Poi, prima che il treno partisse per l’Ucraina, vide Filippo che correva. Balzò in piedi e corse verso la porta ormai chiusa. Battè forte le  mani piccole sul finestrino. Il conducente aprì. Scese e andò verso Filippo. Lo abbracciò con tutto l’affetto che poteva. Lui, sfinito, le finì tra le braccia. Non si era mai sentito in quel modo. Si guardarono dritti negli occhi. Non c’era bisogno di dire niente. Il desiderio di entrambi: andarsene. Salirono sul treno che partì verso l’Ucraina. Non fecero nessun accenno dell’accaduto.

Giunsero in Ucraina. La tata aveva avvisato del suo arrivo il marito Sasha. La stava aspettando alla stazione di un paesino vicino alla grande capitale Kiev. Era un omone segnato dal tempo, con piccoli occhi  guardinghi ai quali non sarebbe mai scappato nulla. Vide arrivare la moglie. Una bicicletta da una parte e una valigia e un ragazzo dall’altra. Non sapeva cosa pensare. Aveva paura che la moglie si fosse risposata. Ma la corsa sfrenata di Tatiana verso di lui gli fecero cambiare idea. Filippo osservava. Tatiana non era  riuscita a tornare in Ucraina e Sasha, insegnante di una piccola scuola che cercava  di tenere lontani dalla strada tutti i bambini che erano rimasti orfani  per la diffusa povertà, non poteva raggiungerla. Sasha comprese chi fosse quel giovane e si aprì sul suo viso un  sorriso  che lasciò vedere i denti bianchi luccicare nella luce di un sole che tentava di vincere le nuvole che minacciavano  tempesta.

Filippo trovò il viaggio verso casa di Tatiana e Sasha strano. Formulò dentro di lui nuove domande osservando capanne di legno degradate, tetti di cartone, case senza finestre, luce o acqua potabile. Sui cigli della strada bambini e ragazzi con una mano alla ricerca di elemosina a signori in vesti eleganti che entravano e uscivano da edifici lussuosi che si ergevano vicino a tutta quella povertà. Arrivarono ad una casa, adiacente al cortile della scuola dove Sasha svolgeva le sue attività. Tatiana e il marito, consapevoli dell’intelligenza del ragazzo, non dissero nulla. Fu come se i tre si conoscessero da una vita. Passarono pochi mesi. Filippo imparò la lingua. Dal primo giorno dall’arrivo aveva iniziato a chiamarli “mamma” e “papà”. Era  indaffarato. Aveva finito le scuole a pieni voti. Si era iscritto alla facoltà di letteratura perchè il suo sogno era quello di scrivere su fogli bianchi che aspettavano di essere riempiti dall’inchiostro della sua penna. Non aveva abbandonato la  pallacanestro. Organizzava numerosi tornei per bambini che non avevano genitori. Aiutò alla sistemazione della scuola di Sasha perchè i bambini avessero  una “casa”.  Poteva fingere di stare bene. Poteva mentire a Sasha e Tatiana sull’inesistenza di un briciolo di mancanza dei suoi veri genitori. Non riusciva a convincere nessuno. Neanche sé stesso.

Arrivò un pomeriggio piovoso. Voleva scrivere. Non sapeva cosa, ma doveva. Alla luce di una lampada di una scrivania sotto la finestra, iniziò ad osservare la pioggia. Gli vennero in mente i pomeriggi passati a contemplare il bosco di casa. Scrisse una lettera ai genitori naturali che avevano cercato di comunicare con lui ma Filippo aveva evitato ogni contatto. La mano prese la biro e iniziò a muoversi sul foglio. Riversò in quelle righe tutto ciò che provava per non avere avuto nella sua infanzia e nei momenti di difficoltà dei veri genitori. Non avrebbe mai spedito quelle righe. I suoi genitori naturali dovevano porsi domande che lui era riuscito a spiegarsi grazie a Tatiana e Sasha. I  genitori che sempre aveva voluto.

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