21. Fortuna vitrea est

Genere: Noir

Mancavano 7 ore 17 minuti e 8 secondi al mitico incontro con la mia band preferita! Sull’aereo c’era un insopportabile odore di arbre magique che mi annientava e non riuscivo ad assopirmi. Non ci sarei riuscita comunque pensando a quello che mi aspettava:  era da giorni che mi immaginavo New York e gli One Direction in dimensione onirica, tanto che non riuscivo a capacitarmi dell’imminente evento. Niente poteva far naufragare questo sogno che sarebbe diventato realtà. C’era solo un piccolo, e credo insignificante, dettaglio che disturbava la mia mente: appena ebbi scoperto la vittoria del Golden Ticket che mi avrebbe portato a incontrare la band pubblicai sul mio profilo Twitter la mia euforia. Tutto normale, tranne un commento da parte di un anonimo: Fortuna vitrea est. Mi sembrava strano che una persona  giovane potesse scrivere su un social network in latino e perciò pensavo ad un adulto. Era questo che mi preoccupava, avevo vinto tra moltissime aspiranti: ce l’avevo fatta, forse il mio post era stato un po’ crudele per tutte quelle che non avevano ricevuto il biglietto, ma il destino non si preclude, quindi che volevano da me? Chissà, forse un genitore deluso. Lo ammetto, sono stata egoista ad andare da sola, ma non sapevo chi scegliere: avrei suscitato l’invidia delle altre escluse. Abbandonai questo presentimento lasciandomi cullare dal dolce suono delle eliche che vorticavano alle mie spalle. Chiusi gli occhi, ma poco dopo fui svegliata da un’incessante turbolenza e, innervosita dalle hostess che mi obbligavano ad allacciare le cinture, pensai a quel post.  Forse era questo l’intento del mittente: farmi diventare pazza senza che lui (o lei) muovesse un dito. Non dovevo farmi prendere dall’ansia, era solo un commento, niente di cui preoccuparsi. Guardando l’orologio, mi accorsi che mancava poco all’atterraggio e questo  mi rese allegra, guardai attraverso il finestrino i giochi che le nuvole compivano intersecandosi fra loro e il sole dava un tocco dorato al tutto facendolo sembrare magico. Mi appisolai una seconda volta e quando mi svegliai realizzai che tra 10 minuti saremmo atterrati. Radunai i miei bagagli e presto scesi dall’aereo. Ero a New York. Mi dirigevo velocemente verso il taxi che mi avrebbe accompagnato all’hotel predestinato al mio pernottamento. Ero sfinita, ma contenta, volevo coricarmi un po’ prima del meet&greet. Avevo circa due ore per sistemare i bagagli nella suite e fiondarmi nella limousine che mi avrebbe fatto raggiungere il paradiso. Ne parlo come se fosse tutto normale: suite, limousine, 1D; ma in realtà faticavo a crederci, era uno dei miei primi viaggi aerei e questo sarebbe stato il mio preferito. Sedevo all’interno di una mastodontica limousine bianca, mi sentivo una celebrità. Ero raggiante tanto che non avevo successo nello stare ferma e seduta. La limousine si arrestò bruscamente facendomi tornare sulla terra. Fui scortata da un maggiordomo fino all’entrata di un edificio maestoso che sovrastava il mio campo visivo. Entrammo e, con lieve imbarazzo, salimmo in un ascensore dalle sfumature bordeaux e dorate per cinque piani. Il maggiordomo mi indicò la direzione lasciandomi proseguire da sola. Bussai con tremore all’unica porta che mi si era parata davanti, mi fu aperta ed entrai. Ero paralizzata, probabilmente con un sorrisino ebete sul viso, al cospetto di cinque solari sorrisi che la band mi stava rivolgendo, solo per me, tutti miei. Senza staccare lo sguardo dai ragazzi, mi avvicinai aprendo il sorriso, che non si sarebbe spento fino alla fine dell’incontro. Sedevamo intorno a una tavola apparecchiata per un tè che non arrivò mai. Dopo il timore iniziale, riuscii a spiccicare qualcosa con il mio inglese improbabile raggiungendo il mio traguardo: gli autografi. Erano scoccate le sette e, come il bianconiglio di Alice nel paese delle meraviglie, il maggiordomo si presentò davanti  a me con l’orologio pendente dal taschino. Lanciai gli ultimi sguardi a quei ragazzi che erano fantastici. Avevo volato nove ore per vederli una. Un desiderio realizzato, che aspettavo dal primo momento in cui ho visto il primo loro video. Ma ora era finita, non li avrei visti mai più, se non ai concerti, quindi mi ritenni fortunata ad avere i loro autografi e ad aver dialogato con loro.

La porta che mi si chiuse alle spalle fu dolorosa: una spina conficcata nel petto. In hotel c’era silenzio. Mentre facevo la doccia mi scese una lacrima, ma non era di gioia. Rivestendomi sentii il telefono che squillava vibrando, sarà un messaggio di mia madre… Era un secondo messaggio in latino: tum cum splendet, frangitur. Non gli diedi importanza: come il primo, riguardava la fortuna, ma se mi fossi messa a riflettere sarebbero emerse scomode verità, perciò lasciai perdere. Dopo nemmeno un’ora mi arrivò un altro messaggio tramite Twitter: levis est fortuna. Questa faccenda iniziava a turbarmi, ma ormai l’evento invidiabile era datato, quindi che voleva costui? Con il pensiero positivo del pomeriggio più entusiasmante della mia vita, andai a dormire spegnendo il telefono. La mattina seguente scesi a fare colazione e, accedendo al social, vidi che i miei followers erano aumentati a dismisura. Stranamente non ne ero felice vedendo i messaggi dei miei nuovi “amici”. Erano rudi, mordaci, pungenti. Quando li leggevo, mi immaginavo persone livide che, accanite sulla tastiera, si sfogavano contro la persona sbagliata non sapendo chi incolpare e non riuscendo ad accettare la sconfitta. Volevo tornare a casa. Avevo paura, non volevo affrontare il problema, anche se ero cosciente che se l’avessi ignorato non l’avrei risolto, anzi, sarebbe stato peggio. Con tutto il coraggio che riuscii a racimolare chiamai i miei ed esposi loro il problema. Mi fece bene pronunciare a voce alta ciò che era successo, anche se mi scese una lacrima, una di quelle amare che ti fanno riflettere sull’importanza della vita. Finché non sei in difficoltà, non ci pensi. Ma quando ti trovi in pericolo, ti poni mille domande, sei sommerso dai dubbi. Sapevo che non sarebbe finita molto presto perché il problema non era circoscritto nel mio Paese, ma si estendeva all’immenso mondo del web che non segue i confini geografici. Non avevo idea di come avrei potuto reagire: se mi fossi comportata con indifferenza, sarei di sicuro stata annientata dalle migliaia di followers che non aspettavano altro che la mia reazione per infierire. Ero attanagliata dall’angoscia che non mi lasciava libera di pensare. Non sono un tipo lungimirante e non avevo idea di ciò che sarebbe potuto accadere se anche avessi mosso un solo dito. Dovevo scegliere la mia prossima mossa e, osservando attentamente la scacchiera sottostante, prevedere quella dell’avversario. Avevo il volto rigato dalle lacrime che scendevano lentamente segnando il mio fato ormai scritto. Dovevo cambiare città, stato, continente e lasciarmi tutto alle spalle.  In Italia mi avrebbero linciata, forse anche uccisa e non solo mediaticamente. In autobus, per la strada avrei dovuto guardarmi le spalle, sussultare al minimo movimento sospetto.

Dovrò mutare la mia identità: piccolo sacrificio per salvarsi. Eppure non volevo crederci.  Avevano ragione gli organizzatori del viaggio. Mi dissero parole orribili a cui stentavo a credere: dovevo lasciare l’Italia, trasferirmi negli u.s.a. e fin qui un’altra

Fortuna vitrea est (cont)

fantasia esaudita, ma quello che mi atterriva era il motivo: in quanto vincitrice del biglietto, avrei potuto scatenare  invidia. Invidia che si sarebbe tramutata in feroci attacchi di cyberbullismo, che avrebbero potuto portarmi al suicidio, dicevano. Come risarcimento del danno subito mi proposero un “affare” prospettandomi che, se fosse successo questo, avrei dovuto cambiare cittadinanza e lasciare il mio Paese. Accettai. In fondo era sempre stato il mio sogno vivere negli u.s.a. Homo quisque faber ipse fortunae suae.

 

Racconto liberamente tratto dalla storia (probabilmente) vera di Flora, diciassettenne di Bologna, vittima del cyberbullismo.

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