23. Ho visto la neve

Genere: Biografico

Elia aveva sempre creduto di morire nella sua terra, nella casa in cui era nata, circondata da tutti i suoi cari. Dopo che il primo fratello era morto, molti anni prima, si era decisa a non farsi cogliere alla sprovvista, così, alla moderata età di quarant’anni, aveva comprato un terreno vicino al cimitero dove seppellire la famiglia e dove lei stessa sarebbe stata posta a tempo debito. Nel corso di un trentennio aveva visto seppellire i suoi sette fratelli e due delle sue sei sorelle, rimanendo la prima di una famiglia boliviana un tempo numerosa. Non avrebbe mai abbandonato la sua terra e la sua casa e questa era una delle sue poche certezze; non sarebbe mai rimasta del tutto sola e poi c’era la piccola Sonia. Certo, piccola lo era stata, ma da quando la sua unica figlia aveva compiuto ventitré anni si era resa conto dell’inesorabile trascorrere del tempo.

Era fiera della sua “pequeña” che in quel momento le sedeva accanto leggendo un libro, e, osservandola da un lettino d’ospedale, poté notare quanto somigliasse al padre, non solo per la testardaggine, ma anche per l’impulsività, la stessa che anni prima lo aveva portato a lasciarle entrambe per una donna più giovane di dieci anni. Non c’erano stati pianti inutili, semplicemente Elia aveva trovato la forza di crescere da sola la sua bambina perché oltre a lei l’unica cosa che le restava erano le sue radici boliviane e per questo non avrebbe mai lasciato la terra in cui erano nati lei e i suoi genitori. Nessuna delle sue previsioni si era avverata, ma almeno accanto aveva una parte della sua famiglia, la parte più importante. Il fatto di trovarsi all’esatto opposto di dove avrebbe dovuto essere l’aveva disorientata i primi tempi, ma aveva qui la sua sola figlia, la sua unica nipotina e il suo genero italiano. Sonia non lo sapeva, ma quando comunicò alla madre di essere incinta, questa aveva già deciso di lasciare la fattoria in cui viveva da tutta la vita, ormai troppo impegnativa per le sue sole forze, e che il compagno della figlia, Matteo, aveva predisposto tutto perché la “querida abuelita” avesse una stanza tutta sua nella nuova casa a Montero. Non si era mai parlato di lasciare la Bolivia.

Barbarita era nata la sera, mentre una leggera pioggia portava un po’di frescura ad una serata di novembre e i primi tre anni della sua vita la piccina li aveva passati nella terra natia, accudita per maggior parte del tempo dalla nonna, giacché entrambi i genitori lavoravano. Così ogni pomeriggio, dopo che la mamma era partita, l’abuelita la prendeva per mano, la portava in giardino e la faceva sedere sulle sue ginocchia: ”Guarda Barbarita, vedi il sole?”. Allora la bambina alzava il viso al cielo e si metteva a ridere mentre la nonna le parlava della sua infanzia passata fra le grandi piante della sua fattoria, ad arrampicarsi sui manghi, a riposare sotto le palme da cocco, a giocare con i duri frutti del tutuma: ” Sai, niña, quando sarai un po’ più grande farai tutto questo e se visiterai il paese del tuo papà vedrai anche quello che io non ho potuto vedere…certo, mi pequeña!Certo, mia piccolina!Forse vedrai addirittura la neve!”.

Si, con la nonna trascorreva ora indimenticabili, come la sera, quando la portava a fare una passeggiata nel quartiere salutando ogni vicino che incontravano. Una tipica bambina boliviana come erano state lei e Sonia alla sua età, molto vivace, come lo è ogni bambino, discola, e testarda, una caratteristica di famiglia.

Fu solo dopo il matrimonio che Matteo iniziò a parlare di un possibile viaggio in Italia per presentare ai suoi genitori la moglie e la figlia. Non c’era nulla di sbagliato in questo desiderio, era, anzi, legittimo, così nessuno si oppose a questa idea e di viaggi se ne fecero tre. Elia era sempre rimasta a casa, non solo per l’età e gli acciacchi, ma anche perché non desiderava muoversi dalla sua terra. Da giovane aveva sognato di vedere il mondo e aveva provato a viaggiare, ma essendo la prima di tredici fratelli era dovuta restare per loro. Da allora non si era spostata dal suo paese e non ne aveva sentito il bisogno, ma ora non credeva che avrebbe trovato le forze. Tutto quello che conosceva e che era sicuro stava lì, perché cercare altro in un luogo lontano? No, meglio lasciare l’Italia agli italiani, ma in quei giorni di solitudine sentiva la mancanza della famiglia. La sua casa, per quanto le appartenesse, non era più la stessa senza le urla della nipotina o le note della chitarra del genero, perciò non volle trascorrere da sola tutto quel tempo. Durante ognuno dei tre viaggi era stata da sua cugina Rosmary, che abitava vicino alla vecchia fattoria e non c’era giorno che non pensasse alle sue bambine. Quando erano tornate, con loro erano tornate le giornate felici ma non erano trascorsi quattro mesi dall’ultima vacanza, che dall’Italia era arrivata una lettera in cui si annunciava la morte del padre di Matteo. Successe tutto all’improvviso, lui fece le valige, partì di nuovo ed trascorsero due settimane di grande attesa. Elia non sapeva cosa stessero organizzando il genero e la sua Soñita, ma capiva che qualcosa agitava la figlia. Frasi non dette, parole lasciate a metà e nervosismo furono costanti presenze dall’assenza di Matteo, ma Elia credeva di aver capito cosa agitasse tanto la sua bambina e tutto le fu chiaro quando questa le comunicò la decisione di trasferirsi in Italia con il marito.

Da allora erano passati due anni e adesso Elia era lì, su un letto d’ospedale in una stanza bianca, in un paese che non era il suo. Sonia alzò gli occhi dal libro e sorrise alla madre mentre dalla porta entrava Matteo: ”Todo bien, abuelita? Tutto bene, cara nonna?” e intanto che poneva la domanda si andò a sedere vicino alla moglie. Guardandoli vicini, lei con il pancione e lui con gli occhi lucidi, si sentì tranquilla come non lo era da tempo. Si, nonostante la nostalgia che a volte la stringeva come una morsa alla gola, era felice. Era felice di trovarsi fra le persone che più amava a questo mondo e che a loro volta le volevano bene con una tenerezza senza limiti.

Da tempo i suoi acciacchi si erano trasformati in qualcosa di più doloroso, qualcosa che i medici non capivano e che non potevano combattere ma nei familiari del genero aveva trovato nuovi parenti, un nuovo sostegno e se anche rimpiangeva la sua Bolivia, aveva imparato ad apprezzare quell’Italia che prima temeva. Chiuse gli occhi e pensò ad un pomeriggio di molto tempo prima, quando, seduta su uno sgabello, guardava un’alta pianta di papaia e mangiava i frutti del guapuru piantato da suo padre. Com’era calda l’aria, com’era calda la terra. Ora comprendeva di non aver perso tutto questo cambiando paese, aveva solo guadagnato. Aveva visto la neve.

Anche l’Italia, adesso, era casa sua, e non si era separata dalla sua famiglia, l’aveva allargata. Finalmente poteva dirsi pronta, tuttavia non aveva nessuna fretta.” Le cose verranno con calma” si ripeteva. Si girò nuovamente verso la figlia e il marito, capì che forse, andare con loro, era stata una delle scelte più giuste e belle della sua vita.

 

Il pomeriggio Sonia e Matteo tornarono a casa e subito Barbarita andò loro incontro. Era stata tutto il giorno con la zia e aveva tante cose da raccontare ma s’interruppe subito vedendo gli occhi terribilmente rossi della mamma. Vide la stessa espressione sul volto del papà e allora chiese lentamente: ”Donde està l’abuelita?”. Sonia, senza risponderle corse in camera piangendo, allora il papà si abbassò verso la piccola: ”Barbara, la nonna non c’è più”. La piccola si accigliò: ” Non ritorna a casa?”. Matteo la guardò mentre due lacrime iniziavano a scendere: ”No, muñeca, ma non dobbiamo preoccuparci per lei. Starà bene in qualsiasi luogo si trovi”. Cosa significassero quelle parole Barbarita l’ha capito solo anni più tardi. Allora ogni inverno alza gli occhi al cielo, guarda la neve cadere e pensa serena “Nonna, ovunque tu sia, se sei con qualcuno che ti ama, sei a casa”.

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