27. Ingenua

Genere: narrativo

Vi è dentro un mondo, dietro le porte di vetro della stazione.

Dove sei te soltanto smog, inebriante smog che tutto confonde. Intorno a te, le auto in coda al semaforo, le valigette nere degli uomini d’affari correre verso il tram, il tram andare avanti e anch’esso, dopo poco, fermarsi in quello stesso incrocio, mentre il semaforo cambia colore e dà segno di passare, dove le macchine, mantenendo la fila, transitano. Te, un banale uomo fermo davanti alla stazione, il semaforo che dà il segnale d’arresto, il filo d’auto che si spezza tagliato dal passaggio del tram, quell’uomo d’affari che desiste e ansimante si allontana, facendo svanire la propria ventiquattrore tra smog, altri uomini e nebbia. Uomini che dormono, attendendo che la sera arrivi affinché questa accolga i loro passi, restituendoli infine così al sonno, a un guanciale ancor candido, non corrotto dalla polvere, come invece le loro esistenze sono, come loro razionalmente negano che siano.

Tutto quanto al di fuori di quei vetri, al di là dei quali, sei convinto stia il mondo.

Un uomo in fondo alla via, sembra avere il tuo stesso umore, si avvicina. Passo lento, incerto, una mano nel cappotto, l’altra alla sigaretta, sembra aver freddo. Altro fumo che s’assomma a questa densa foschia tra pioggia e gelo ti sorprendi a pensare. Non puoi farci nulla, ti devi arrendere anche tu, abbandonare a quel velo di amarezza che comincia ad annebbiarti la vista. Poi un dubbio. A ogni suo passo, vedi un maggior numero di rughe sul suo volto e minor luccichio nei suoi occhi, dico in quelli del passante, sfavillio che sembra trasferirsi e che brucia nel catrame della sigaretta. La fiammella si distingue per un attimo tra la nebbia, mostrando per poco, più nitidamente, i lineamenti di quel passante. L’uomo ti supera, passando alla tua destra, si gira un attimo come per essere sicuro di non sfiorare, passando, il cappotto col tuo, poi, voltandosi, contrappone alle tue spalle le sue. Nel mentre lasci che quell’acre odor di sigaretta si insinui tra le narici. Mista al tabacco, ti droghi anche te di quell’eccitante polvere grigia, ma cosa ti è preso? Tu non fumi, cosa allora ti spinge a sentirti appagato da quell’odore? Non fai nemmeno in tempo a formulare la domanda nella mente, figuriamoci darle una risposta, che l’uomo si è già allontanato. Si è perso anch’esso in quell’atmosfera fosca, in quella brumosa indeterminatezza. Il mozzicone di quella sigaretta è ai tuoi piedi, è ancora acceso benché l’acqua lo circondi e continua a bruciare, rinnovando nel suo estinguersi la propria luce. Lo fissi un attimo, restando fermo, rimembri il tuo primo pensiero: la stazione e allora ti muovi. Cerchi di ricordare anche cosa ti avesse spinto a quel crocevia di anime ed è così che impetuoso, ti torna alla mente tutto. Un tutto che nuovamente però si perde veloce tra lo sferragliare dei treni in arrivo e l’odor di caffè che pian piano, avvicinandosi alle porte di vetro, si sostituisce a quello dell’inquinamento. Schiacci col piede il mozzicone. Ti giri subito come per controllare se per caso quello brucia ancora. Arancio, il color della cartina che ancora brucia, mentre la cicca, in cenere, lascia solo una scia di fumo che segue il muoversi del vento leggero che cerca, senza esito, di smuovere la nebbia. Tira verso est il vento.

Profumo di caffè ti avvolge e finalmente scopri qualcosa di familiare in quel posto alieno, un qualcosa capace di svegliare il tuo spirito sopito. Tutto ciò che avevi ricordato prima, come si è detto, viene sostituito velocemente, come di scatto, dall’odore di caffè che ti viene servito al tavolinetto del bar, hai scelto il tavolo posto vicino alla finestra così da riuscire a vedere di fuori. Ti accorgi di un pesante strato di polvere sullo stipite. La cameriera poggia la tazzina sulla tovaglietta di carta che ti sta di fronte, ti ringrazia e torna dietro il banco, dove un turista, appena sceso dal treno, la ferma con un cenno del capo chiedendole dove poter comperare i biglietti del tram. Senti che le chiede se per caso esista la possibilità di acquistare qualche carnet invernale, magari natalizio, col quale risparmiare qualche spicciolo, denaro impiegabile, poi, diversamente, in un altro bar, uguale a quello in cui stai, a qualche isolato da lì. Lei non gli sa rispondere però gli indica un tabaccaio subito fuori, sulla destra. Forse quello stesso dove l’uomo di prima aveva comprato le sigarette. Il turista, con accento straniero, di un paese dell’est, ringrazia, con aria cordiale saluta ed esce. Tlin, la campanella risuona non appena la porta si socchiude. Afferri il cucchiaino, lo immergi nel caffè. Poi ti fermi. Manca lo zucchero. Al centro del tavolino, sulla superficie di plastica bianca, che tanto ricorda i tavoli delle mense della Caritas, c’è un piccolo contenitore impagliato pieno di bustine. Ne cerchi una tra le tante che sia di zucchero di canna. Non la trovi e ti accontenti di una qualsiasi delle altre. Appena uno strappo a una delle due estremità e il suo contenuto si riversa nella tazzina. Ora puoi riprendere il cucchiaino e girarlo un paio di volte per disciogliere lo zucchero. Così fai. Dopo due o tre giri, tutti rigorosamente nello stesso verso, porti il cucchiaino alle labbra. E’ il primo.

Entra una coppia di ragazzi nel bar, la cameriera di prima li accoglie e indica loro un tavolo alcuni metri lontano dal tuo. Lui si avvicina al tavolo indicatogli, le aggiusta la sedia e aspetta che lei si sieda, lei si accomoda e lui fa lo stesso. Incominciano a parlare di ogni cosa che passa loro per la testa, se non entrambi almeno lui lo fa ti dici osservando; a riprova di tutto ciò, ti pare che il suo gesticolare confuso palesi l’ansia di quelli che sono i suoi anni. E’ proprio dalla tensione che attraversa ogni suo atteggiamento, da quello più semplice al suo stesso tono di voce, che capisci che quelli che ti erano sembrati poco prima due fidanzati non sono altro che due innamorati e che il fiore non è ancora sbocciato. Esso difatti sta aspettando l’attimo migliore per esibire i suoi petali, il momento in cui forse lui smetterà di ripetere “scusami” o “pardon” per ogni minima cosa che dice e che gli sembra sbagliata. E’ inaccessibile il linguaggio di quell’età ti sorprendi a pensare, sentendo il peso degli anni che non sono più quei pochi che possono avere i due ragazzi. Ritorni a bere il tuo caffè e ti soffermi a guardare fuori dalla finestra mentre il rumore dei treni, attutito dal pensiero, come fosse lontano, giunge alle tue orecchie. Tlin. Distogli lo sguardo dal vetro appannato, la porta si chiude dietro le spalle dei due ragazzi. Finisci il contenuto della tua tazzina, ti metti il cappotto, paghi il conto. La signorina che ti ha servito prima ti dà lo scontrino.

Tlin. Sei fuori, tra i fumi di scarico delle auto. No non è fumo, è nebbia. Non sai cosa devi fare né sai in che periodo della giornata sei, no non è pomeriggio, forse sera, tutto si confonde nella nebbia. Incominci a camminare. Torni da dove eri venuto: al semaforo rosso, ai taxi gialli, all’asfalto nero. All’incrocio vedi i due ragazzi di prima. Lui le cinge le spalle mentre lei cammina con quell’aria ingenua da ragazzina sbadata che non s’accorge della vita che passa. Ingenua è la parola che ti viene alla mente in un attimo. Corri alla stazione. Entri. Di corsa ti precipiti sul primo binario. Il tuo respiro si fa affannoso e ti accorgi di non essere più giovane come un tempo. Arrivi che il treno si ferma. La gente scende, corre, si affaccenda. Un ragazzo ti strattona per giungere all’uscita più velocemente, ti colpisce con lo zaino. La riconosci tra l’altra gente. La saluti. Lei china gli occhi come imbarazzata, poi si incammina con te verso l’uscita. Con quell’aria ingenua, ti prende per mano e così, le mani l’una nell’altra, uscite. Ad un tratto ti tira.

Tlin. Sei di nuovo all’interno del bar. Scegli un tavolo, le aggiusti la sedia, lei si accomoda e te fai lo stesso. Lei fa un cenno alla cameriera e ordina due caffè.

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