32. Il viaggio per diventare grandi

Genere: Narrativo

“Gianfausto?”

“Si, cara?”

“Dove abbiamo sbagliato?”

Sabina guardava il marito con gli occhi pieni di lacrime, esterrefatta dalla calma con cui lui affrontava il problema.
Erano le 8 di sera e, come di consueto, a casa Caligiuri si cenava. Sabina non se la sentiva di cucinare, perciò decise di scaldare uno di quei passati di verdura prepreparati, precotti e predigeriti che vendono al supermercato. Non si trattava di un compito troppo gravoso da svolgere, ma quella sera Sabina si sentiva tragicamente depressa, così, tra un pensiero melanconico e l’altro, riuscì a fallire nell’impresa ridicola del preparare un qualcosa di già fatto.

Gianfausto ignorò con naturalezza i pezzi di confezione che galleggiavano nella sua minestra. Tentò di ignorare anche la moglie, invano.

“Perché se ne è andato? Il mio bambino…” Insisteva Sabina con tono melodrammatico, cercando lo sguardo del marito.

“Il tuo bambino ha vent’ anni! E’ giusto che faccia le sue esperienze! Ti ha anche promesso che ci verrà a trovare tutte le domeniche!”

Sabina scuoteva la testa. Tommaso, il suo unico figlio concepito col contributo di un utero ostile, era il suo prezioso gioiello. Quando era venuto al mondo si era annullata completamente, e aveva risparmiato per lui ogni dolcezza, privando sé e il marito di quell’amore che il loro bambino aveva prosciugato.

“Lo chiamo.” Disse lei.

“Sabina-“ la fermò lui.

“Mi aveva promesso che ci avrebbe contattati appena fosse arrivato a Pavia”, piagnucolò la moglie mangiandosi le unghie.

Lui le accarezzò il braccio che teneva appoggiato sul tavolo da pranzo, poi le sorrise.

“Manterrà la promessa. Dagli il tempo di scendere dal treno!” disse infine.

Il telefono squillò.

Sabina scattò in piedi come una furia, ma, non appena raggiunse il mobiletto, si disse che doveva essere qualche stramaledetto call-center che importunava la gente nei momenti meno opportuni e che occupava la linea, impedendo loro di sentire Tommaso.

Alzò la cornetta strizzando gli occhi e incrociando le dita.

“Sono tutto intero. Mi sono appena disinfettato le mani perché non sai mai cosa ci trovi su quei treni lì, non ho dato confidenza agli altri passeggeri che sono tutti disgraziati e mi sto accingendo a consumare un pasto molto ben bilanciato in una stazione di servizio di quelle serie, perché nei fast-food ci trovi la carne di cavallo nelle polpette e i batteri della cacca nella torta al cioccolato” la anticipò tutto d’un fiato Tommaso, che stava scaricando il bagaglio dal vagone.

“Ti sento un po’ stanco.”

“No…” sbuffò lui, infastidito dalle attenzioni opprimenti della madre.

“Sei arrabbiato?”

“No, no. Sono un po’ spaesato. Devo ancora ambientarmi…tutto normale” cercò lui di sviare.

“Lo sai che puoi tornare quando vuoi…io e papà-“ Sabina tentò un’ultima volta di riattrarlo a sé.

Fallì, miseramente.

“Guarda, ho appena avvistato il mio coinquilino. Ti devo lasciare” mentì Tommaso attaccando il telefono.

Nel breve tragitto che percorse per arrivare alla tavola calda, il ragazzo meditò sulle solite cose a cui si pensa quando si è soli, specialmente quando si passa da una fase all’altra della vita: l’inesorabile scorrere del tempo.

Tommaso aveva accumulato due sole certezze in vent’ anni: era certo che un giorno sarebbe morto (e su questo era certo che concordassero tutti). Poi era certo che il giorno in cui avesse lasciato casa sarebbe stato il giorno più felice e liberatorio della sua vita (come era certo del fatto che anche Kierkegaard lo avrebbe sottoscritto, se avesse avuto per madre sua madre).
Ma come è naturale che sia, le cose non stavano procedendo come le aveva immaginate lui.

Avere due genitori apprensivi è la via più facile per insidiare nei figli il desiderio di evadere. Il problema sorge quando si aprono le sbarre.

Tommaso, che era cresciuto in cattività, per quanto cercasse di comportarsi in modo spavaldo e maturo, cominciava a sentirsi solo in mezzo alla strada.

Era stato un bambino molto autonomo, il genere di ragazzino che cammina due metri avanti ai genitori per non dare a vedere che sta con loro. Con queste belle premesse, oggi si aspettava di essere un adulto imperturbabile.

Tommaso continuava a camminare e più avanzava, più sentiva che stava cominciando qualcosa di nuovo, eccitante e spaventoso insieme. Dietro di lui non ci sarebbero più stati i genitori a supportarlo e a consolarlo quando ce ne era bisogno (e anche quando non era necessario).

Non ci sarebbero stati gli appiccicosi abbracci di sua madre e i sermoni soporiferi del padre. Allo stesso modo sarebbero mancate le pulizie ossessive (ma comode) di Sabina e le maratone selvagge di squash con Gianfausto (contro il quale vinceva sempre).

Comunque, per non ridurre il ruolo dei due genitori ad “ansiosa donna delle pulizie” sposata con “avversario facile”, diciamo che la cosa che gli sarebbe mancata di più era la costante impressione di essere la persona più amata e desiderata al mondo.

Questa certezza, quella di potersi permettere di tornare bambino all’occorrenza, lo consolava molto, ma allo stesso tempo sentiva che era arrivato il momento di crescere.

La suoneria del cellulare interruppe il monologo interiore.

“Pronto? Sono la mamma. Hai già pensato a cosa vuoi per cena domenica?”

Come non detto.

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