35. Lio e le rose

Genere: Psicologico

In quel momento qualcosa cadde e atterrò con forza sulla terra, provocando un grande tonfo, seguito da un lungo silenzio, di cui nessuno si preoccupò.

Lio si alzò solo più tardi, indolenzita dalla caduta appena fatta, e si accorse così di trovarsi in quello che, probabilmente, era stato il suo primo mondo. Si  guardò intorno: era un luogo prevalentemente verde, molto simile a come glielo avevano descritto; ma, malgrado ciò, non riusciva minimamente a ricordarlo, né a riconoscerlo. Tutto era iniziato qualche tempo prima, quando d’un tratto era caduta da quel pianeta, trovandosi così a far parte di un regno che si trovava più in alto rispetto a quello da cui era arrivata, e, subito dopo, aveva perso ogni ricordo di ciò che precedeva quel fatto. Anche il suo nome, in realtà, era sicuramente cambiato, visto che ad indovinarlo era stato uno di quegli esseri spaventosi, che si vantavano d’essere venuti dallo stesso mondo in cui ora si trovava lei, e che a volte fingevano di avere ancora dei contatti con quel luogo e si destreggiavano a improvvisarsi veggenti di fatti lontani.

Questa volta, però, la caduta era stata tale e non aveva avuto alcun genere di risvolto negativo, tranne per il fatto che Lio era completamente persa: non sapeva dove si trovasse, come sarebbe potuta tornare al mondo di prima, non era neppure sicura di volerci tornare. La soluzione migliore le sembrò quella di spostarsi, prima che a spostarla fosse qualcos’altro, e così si mise in cammino e sul  far della sera raggiunse un piccolo paesino, abitato da uomini e da donne.

Subito riconobbe l’aspetto delle persone che, benché non le fossero familiari, avevano le sue stesse caratteristiche fisiche, e provò, quindi, a rivolgere loro la parola, senza successo.

Presto Lio si accorse che la lingua, parlata da queste persone, le era sconosciuta e, ancora peggio, che nessuno poteva vederla, né toccarla: intorno a lei la gente si scostava, come spinta da una forza astratta o da un sesto senso, che tracciava un tragitto da cui lei era semplicemente escusa.

Questo fatto le diede un grande sconforto e la ragazza, sperando ancora in qualche cosa, decise di seguire la folla fino a quel luogo, dove tutti si stavano dirigendo.

All’interno un brulicare di vita, che le ispirava sentimenti contrastanti: da una parte vi erano molti uomini intenti a bere, dall’altra donne sempre pronte a riempire i loro calici. In questo via vai Lio scorse una sedia libera e, sentendo che lo era proprio per lei, vi si sedette.

Il tempo passava, e la ragazza osservava con poco interesse ciò che accadeva intorno a lei, tentando invano di affezionarsi a ciò che vedeva: persone, luoghi o fatti. Tutto procedeva come sempre, quando, nella confusione, le parve di scorgere qualcuno che la guardava. Lio non avrebbe dovuto farsi delle illusioni, ma quando il giorno dopo le si presentò la stessa scena, non potè fare a meno di sentirsi sopraffare dalla gioia di esistere e di non essere sola.

Ogni giorno stava lì, ferma, e aspettava che quella signorina gentile apparisse e le sorridesse, ma se c’era troppa gente, si accontentava anche di un cenno. In breve tempo le due instaurarono un certo rapporto di complicità, o almeno così avrebbe detto Lio; ma nulla dura a lungo in questo mondo, e presto accadde che una sera arrivarono degli uomini diversi dai soliti: molto più irruenti e sgradevoli, che parevano venire apposta per dar rogne.

Fu un attimo e nel locale rimasero solo loro, lei e quella sua simpatizzante. Subito uno si avvicinò: era il più grosso tra tutti e metteva paura solo a guardarlo. La ragazza volle mostrarsi accomodante e offrì da bere e da mangiare al suo ospite e a tutto il suo gruppo; Lio però non aveva lo stesso coraggio, e temendo che bevande e vivande non bastassero a saziare gli appetiti di quegli avvoltoi, si alzò e abbandonò la taverna in punta di piedi, dimenticando che solo una persona poteva vederla in quel momento, e che probabilmente, guardandola, provava una tristezza immensa e una paura ancora più grande.

Lio tornò il giorno dopo, quello dopo e quello dopo ancora, ma non rivide mai più la ragazza sorridente. Quando furono passati alcuni giorni si rassegnò e abbandonò la cittadina per ritornare al punto di partenza, completamente affranta.

Mentre camminava, si rese conto che un grande dolore si stava lentamente propagando in tutto il suo corpo e le venne naturale illudersi che quella fosse la prova della sua umanità, che era stato

giusto pensare solo a sé stessa, e che chiunque avrebbe fatto lo stesso; ma poi le venne da chiedersi se quella ragazza era sua amica, e se anche lei si sarebbe comportata così, e con profonda amarezza si ripromise che avrebbe domandato il suo nome allo stesso essere che le aveva detto il suo.

Il dolore continuò a propagarsi fino a che non l’ebbe avvolta completamente, e in quel preciso momento Lio si ritrovò nel mondo da cui era caduta la seconda volta. Tutto era rimasto uguale: intorno a lei, un campo di rose bianche sconfinato andava incontrandosi all’orizzonte con un cielo azzurro limpido, in cui non c’era il sole, ma c’era luce. Le spine nascoste sotto i petali si aggrapparono strette alle sue gambe come artigli, e davanti a lei ricomparve lo stesso essere mostruoso che l’aveva accolta la prima volta.

Lio lo osservò accuratamente e, con grande sorpresa, riuscì a cogliere in lui dei tratti umani di cui non si era mai accorta. L’essere le diede un breve sguardo di rimprovero e, come aveva già fatto, si voltò con l’intento di farsi seguire, mostrandole le sue ponderose ali scure.

Allora Lio si strinse a lui, atterrita, afferrandolo per le ginocchia, e, col viso premuto contro il suo mantello, scoppiò in un profondo pianto di supplica: “Ti prego, non farmi cadere ancora.”

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