40. L’ultimo traghetto

Genere: Storico

In marcia, insieme ai miei compagni, dovevamo cercare di raggiungere il porto di Messina da dove sarebbe partito il traghetto per il nostro ritorno a casa.

Mentre camminavo, curvo sotto il peso della zaino, con la gola secca impastata di polvere, pensavo alla mia casa, ai miei affetti, al mondo che tanto amavo e che ero stato costretto a lasciare. Non pensavo alla mia mamma. No, con lei non avevo mai vissuto, non ero cresciuto come gli altri bambini all’ombra del suo amore. Pensavo al Patronato, ai miei compagni di camerata, al campo di calcio in cui giocavamo partite che non finivano mai, alla suora cuciniera  e al nostro vice-rettore.

Mi ero chiuso come in un guscio al mio unico pensiero:  quello di ritornare vivo, ma non avevo nemmeno l’idea di dove fossimo. Camminavano da giorni in mezzo alla campagna senza incontrare nessun essere vivente all’infuori di qualche cane rabbioso che ci inseguiva abbaiando. E se ci fossimo persi? E se il traghetto fosse partito senza di noi? uQQQueste domande mi turbinavano vorticosamente nella mente, ma non osavo esprimerle ai miei compagni di sventura, anche loro immersi in cupi pensieri.

Mi facevano male i piedi, fasciati nelle scarpe li sentivo bruciare come se stessi camminando sul fuoco, ma non mi fermavo, non volevo rimanere un attimo di più in questa terra  e poi se avessi tolto le scarpe mi si sarebbero gonfiati  tanto da non riuscire più a rimetterle e avrei dovuto camminare a piedi scalzi e sarei arrivato a casa con i piedi feriti e insanguinati.

Quando le ombre dei nostri passi iniziarono ad allungarsi, arrivammo su di un’altura e da li potemmo finalmente ammirare quella che doveva essere stata una stupenda città: eravamo arrivati a Messina, con il suo porto, le sue piccole vie, le case dai tetti piatti. L’odore della salsedine e i colori del mare all’imbrunire, conferivano all’immagine un che di magico. Da lì sarebbe partita la nostra salvezza, il rimpatrio in continente, la gioia del ritorno.

Camminavamo per le vie deserte di questa città, a noi sconosciuta, alla ricerca di un riparo sicuro dove passare la notte,  trovammo aperta solo la chiesa del Sacro Cuore ed entrammo per sistemare gli zaini.

Io volevo essere sicuro dell’orario di partenza del traghetto perciò, con altri due soldati, scesi al porto per cercare qualcuno della nostra compagnia o qualche superiore che ci potesse fornire delle indicazioni. Arrivammo al porto e rimanemmo sconcertati. Ecco dove erano diretti i bombardieri americani! La banchina era completamente distrutta, sul marciapiede pezzi di ferro, blocchi di cemento, assi di legno e  una quantità tale di materiale tanto da formare delle montagne di detriti disposti qua e la lungo la costa. Era quasi impossibile riuscire a camminare, come avremmo fatto a salire sul traghetto? Come e dove avrebbe attraccato?

Incontrammo altri soldati anche loro vagavano tra le macerie, anche loro con la nostra stessa faccia smarrita, anche loro si chiedevano come avrebbero fatto a raggiungere Reggio Calabria, che era lì, così vicina, al di là di una piccola striscia di mare blu. Desiderata ma irraggiungibile e inaccessibile.

Non trovammo nessun superiore, nessuno era in grado di dirci a che ora sarebbe arrivato l’unico traghetto ancora in servizio, ma sarebbe arrivato? O saremmo morti tutti come topi in trappola ad un passo dalla salvezza? Ci sembrava che al di là dello stretto ci aspettasse la fine della guerra, che saremmo arrivati a casa in breve tempo, che riuscissimo  a risalire tutta l’Italia fino al nord, fino a Bergamo.

Alcuni soldati ci dissero che si fermavano a dormire al porto, per non perdersi l’imbarco della mattina. Volevano andare via più in fretta possibile, altri invece cercavano dove potersi sistemare per riposare almeno qualche ora: chi sulle panchine dei giardinetti, chi in qualche casa abbandonata.

Tornammo alla chiesa con gli occhi colmi di tristezza ma, guardando i miei compagni, cercai di infondere loro un po’ di speranza:

“Ragazzi, domani mattina scendiamo tutti al porto e in qualche modo ci imbarcheremo. Vedrete che domani saremo a Reggio, adesso riposiamo un poco, ci aspetta una giornata faticosa”

I ragazzi stesero a terra le loro coperte e cercarono di dormire, ma nessuno riusciva a prendere sonno.

Un giovane compagno dallo sguardo spaventato disse:
“Tolfo, Tolfo dormi?”

“No” risposi.

“Pensi che riusciremo a partire domani?”

“Non lo so, il porto è messo male, ma cerca di dormire?”

“Tolfo”

“Cosa c’è ancora?”

“Io lo so dove sono andati a dormire gli altri”

“Dove sono andati?”

“Sono andati al cimitero”

“Al cimitero?”

“Si, hanno detto che è il posto più sicuro, gli americani non bombardano i cimiteri, lì sono già tutti morti. Dovevamo andare con loro, qui non siamo al sicuro”

“Dormi, siamo più sicuri in una chiesa, almeno il Signore ci proteggerà”

Non l’avessi mai detto, dopo poco sentimmo l’ululato della sirena antiaerea che fendeva come una lama, il silenzio della notte. In pochi minuti aerei a bassa quota presero a sorvolare sopra di noi. Ci stringemmo gli uni contro gli altri addossati ad un grosso pilastro ed io, con gli occhi chiusi, cominciai a pregare in silenzio.

Gli aerei sganciavano bombe che andavano a colpire obiettivi a noi sconosciuti, sentivamo la vicinanza delle detonazioni, il pavimento cominciò a tremare, i vetri della chiesa esplosero e gli arredi sacri tintinnarono all’interno del grosso armadio della sacrestia.

Tutti mormoravano a fior di labbra le preghiere dell’infanzia invocando disperati ognuno la propria mamma. Dopo un’esplosione particolarmente vicina, alcuni calcinacci caddero dal soffitto e istintivamente mi riparai la testa con le mani: “Signore fammi tornare a casa, fammi tornare a casa sano e salvo, non farmi morire in Sicilia”

Lampi accecanti illuminavano a tratti le statue dei Santi, la luce tremolante delle candele conferiva alla chiesa un aspetto tenebroso.

Raggomitolato, con la polvere del cemento che entrava dal naso e mi impediva di respirare mi chiedevo che fine avremmo fatto tutti quanti.

Dopo quello che ci sembrò un’eternità, all’improvviso il silenzio ci avvolse come un sudario, increduli di essere sopravvissuti lentamente alzammo la testa e ci guardammo l’un l’altro pallidi di paura.

L’alba ci sorprese con gli occhi gonfi, le labbra screpolate dalla sete e una spossatezza generale.

Zaini in spalla e via verso il porto. Nulla ci aveva preparato allo scempio che avremmo trovato. Il porto era un macello di detriti e di uomini, un puzzo di carne bruciata e di polvere da sparo ci colpì con violenza e un muro di fumo nero si innalzava davanti a noi.

I ragazzi che erano rimasti a dormire al porto erano morti sotto il feroce bombardamento o gravemente feriti dalle schegge.

Camminare sulla banchina divenne un’impresa impossibile, le montagne dei detriti erano talmente alte da non poter essere scavalcate anche se sentivamo i gemiti dei feriti al di là di essi.

Cominciammo a scavare con le mani per aprire un varco e il primo ragazzo che vidi  era disteso a terra in una pozza di sangue, aveva una gamba completamente staccata dal tronco. Mi chiamava e gridava:

“Prendimi, prendimi”

Un conato di vomito mi scosse e un sapore amaro mi salì in bocca.

Sconvolto gli risposi:
“Dove ti porto figliolo”

Lo guardavo impotente mentre gridava in preda al dolore, finchè il suo grido si fece sussulto, il sussulto un singhiozzo e poi più nulla.

Era un ragazzino di diciannove anni, sul suo viso ancora i tratti di una fanciullezza appena terminata.

All’improvviso sentimmo il rumore assordante di una zattera a motore che si avvicinava alla banchina con  lentezza  ed io, trattenendo il respiro, immerso nell’orrore, sentivo l’immensa gioia del ritorno.

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