44. Sala d’attesa

Genere: monologo

Poteva accadere. Che un raggio di sole si facesse largo tra i nuvoloni, presagi di un temporale, e poi si insinuasse, sottile, in quel buco buio e sporco che è la sala d’attesa della stazione.

Doveva accadere. Quell’incontro delle sette del mattino, quel viso conosciuto e sconosciuto allo stesso tempo, quello “scusi, sta arrivando il treno per Bergamo?”, urlato da qualcuno, che si lamenta dell’inefficienza dei servizi ferroviari; sussurrato da altri, forse ancora troppo assonnati per prestare veramente attenzione.

Il mio viaggio comincia qui, ore sette del mattino. Destinazione solita, solito libro di filosofia in mano, soliti pensieri del lunedì mattina.

La sala d’attesa della stazione è un luogo bizzarro: è il punto di ritrovo di persone che partono, ognuno per il suo mare, lontano dal porto.

C’è la Signora Bionda, con i suoi due amici in giacca e cravatta, che discute amorevolmente di lavanderie e incompetenza delle segreterie sul lavoro. E’ il genere di persona schiava della consueta routine, abituata a salire sul treno salutando gli sconosciuti che vede quotidianamente, senza nemmeno far caso a un barbone sdraiato in un angolo, infagottato in una logora coperta di lana o ad una ragazza con i capelli di una singolare tinta verde smeraldo.

Il netturbino: mi conosce forse più di chiunque altro, lui, sempre felice di parlare con me dopo una nottata di assiduo lavoro. Sono già tre volte che si addormenta sul treno nel ritorno a casa, sbagliando la fermata. Ha una tuta arancione e delle scarpe sciupate quasi come il suo viso assonnato.

Poi ci siamo noi, studenti. Chi ripassa, chi socializza, chi ascolta la musica in disparte. Siamo a volte più stanchi dei lavoratori e forse più schiacciati dalla normalità, quella normalità che ci porta a condividere tutte le mattine lo stesso viaggio, dalla medesima angusta sala d’attesa alle mete più svariate.

Accanto a me si siede una signora di colore, sui quarant’anni. Ci faccio caso solo perché porta un enorme cappello colorato e ha una marea di treccine nere che ricadono disordinatamente sulle spalle. Mi accorgo solo dopo che è accompagnata da una bambina, una furbetta di forse tre anni che le gira continuamente intorno, salta, chiacchiera in una lingua a me ignota. Mi vede, si avvicina e ride. La mamma si volta: le labbra rosee e carnose si schiudono in un dolce sorriso; mi guarda. Gli occhi sono così scuri che la pupilla risalta a malapena. Occhi intrisi di una leggera malinconia, che ti perderesti a fissarli troppo a lungo, come in un mare di nostalgia. Occhi ben delineati, un po’ stanchi, che sembrano voler parlare. E parlano.

L’immagine di quel sorriso, di quel volto, è una di quelle fotografie in bianco a nero che sbiadiscono col tempo, ma i cui soggetti restano impressi nella memoria, per non andarsene più.

Nella mia fotografia c’è Jamila, si chiama così, che prepara la cena in un villaggio africano. E’ incinta di sei mesi, ma il marito se n’è andato da quattro.

E’ ora di cena; non è che sia rimasto molto da mangiare: ci si accontenta di qualche legume. La casa di Jamila è una capanna fra le tante, ma lei ne ha sempre avuto cura, come ha cura di qualsiasi cosa le stia attorno. Ha riempito la casetta di stoffe colorate che lei stessa ha cucito con ciò che è riuscita a recuperare. Il cappello variopinto è solo una delle sue creazioni.

Riesco a rendere colorata una fotografia in bianco e nero solo con le parole di Jamila: stoffe di tanti colori, e fuori un sole ardente, il mercato, i bambini per le strade. Africa è dove la natura e la gente sono un po’ la stessa cosa. Milioni di persone sotto un sole cocente, villaggi che spuntano dal terreno come funghi, uno attaccato all’altro. Poveri che chiedono l’elemosina per strada, ma poco è il guadagno in una terra povera.

All’improvviso fa ingresso dalla porticciola Hassan, il fratello di Jamila. E’ un omaccione alto e possente, nero come la pece. I denti bianchi spiccano luminosi in un sorriso inaspettato.

Si ferma a cena lì: ha una proposta: “Jamila, partiamo”. L’Europa offre grandi prospettive: lavoro, educazione, rifugio. Non è facile, ma lui ha amici che organizzano viaggi, trovare un battello è un gioco da ragazzi. Poi, arrivati, una casa si trova.

SALA D’ATTESA

 

La sorella è perplessa. La fronte, ben marcata, si aggrotta. Lasciare una terra per un destino ignoto è un passo doloroso. Ma all’improvviso una fitta alla pancia: è il bambino che scalcia.

Jamila si accarezza il ventre, c’è vita, c’è vita dentro di lei. E finchè c’è vita si può rischiare. Non è da sola a compiere un viaggio, ora sono in due. E se questo viaggio può salvare entrambe le creature allora si può partire.

Senza bagagli, senza promesse, senza tanti amici da salutare o parenti da abbracciare. La sola speranza di vita.

Così, ore 7 del mattino, Jamila, il suo cappello arcobaleno e la sua bimba prendono il treno. Non ho il coraggio di chiederle se ha trovato un lavoro, se ora è diverso, chi si prende cura oltre a lei della bimba, dove va alle 7 del mattino. E soprattutto se le manca casa sua.

Un viaggio non comincia mai senza un abbandono: dall’abbandono del letto caldo la mattina per andare a scuola all’abbandono di una terra, la più terribile delle rinunce.

Sala d’attesa perché si attende. Si attende il treno, si attende di partire, di affrontare una giornata, con tutte le sue fatiche.

Certi incontri si fanno solo qui.

E allora metto in cartella il libro di filosofia, perché tanto non mi servirebbe nulla ripassare ora quando posso guardare, guardare quella bambina che saltella, alle 7, in giro per la saletta. Anche lei ha le trecce nere nere come quelle della madre, e un cappottino di lana rosso e giallo.

La campanella: il treno sta arrivando. Usciamo, l’aria fresca di marzo pizzica la pelle.

La bimba fa un respiro profondo, come se volesse riempirsi i polmoni di tutta quell’arietta frizzante e indica alla mamma la luce del treno in lontananza.

Jamila mi guarda e ride, ed è uno di quei sorrisi capaci di illuminare una giornata, semplice e puro.

Il treno arriva accompagnato da una folata di vento: porte aperte. Si parte.

Salgo con la mia nuova amica e sono felice. Felice di viaggiare con quella donna colorata e la sua fanciullina dalle trecce nere.

Felice di un incontro in sala d’attesa, un soleggiato lunedì mattina di marzo.

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